Possiamo considerarla la strage del Venerdì Santo, per quanto la festività non sia sentita nel Paese mussulmano. Ma ieri, quanto accaduto in Siria, rappresenta solo la fase iniziale di quanto ancora potrebbe succedere nello stato, se si intensificheranno le proteste contro il duro regime di Bashar Assad, che eredita il potere dal padre, a capo del partito Baath, al potere dal 1963. Solo ieri, in seguito alle manifestazioni di protesta indette per la cosiddetta “giornata della collera“, dopo la preghiera del venerdi, e che si sono tenute nelle principali città siriane, tra cui la capitale Damasco, la polizia non ci è andata con i guanti di velluto, provocando una novantina di morti (ma le cifre sono provvisorie) in tutto il Paese. E così, dall’inizio delle proteste, i morti accertati sarebbero almeno 230, una vera e propria strage silente, contrariamente al rumore che altre proteste, in altri stati, hanno fatto in Occidente.
E dire che dopo le rivoluzioni in Tunisia ed Egitto, che portarono alla caduta dei regimi di ben Alì e Hosni Mubarak, la Siria era passata da una posizione di intransigenza, palesando la possibilità di intensificare la censura nel Paese, a un’apertura che ha portato alla possibilità di utilizzare il social network Facebook, nonchè all’abolizione dello stato di emergenza che dura da 48 anni, da quando i baathisti sono giunti al potere, così come dei tribunali speciali, fino anche alla possibilità di manifestare pacificamente.
Ma le concessioni del governo siriano non sono bastate a placare gli animi della popolazione, che chiede maggiore libertà e democrazia, oltre a migliori condizioni di vita.
Siamo all’ennesimo caso di rivolta popolare contro un regime arabo, i cui contorni sono in tutto e per tutto un remake delle scene che abbiamo visto a Tunisi e a Il Cairo, così come a Tripoli, Sana’a, e così via.
La Casa Bianca ha ufficialmente condannato le violenze e l’uso eccessivo della forza. Silenzio, al momento, dalle altre cancellerie. Ma la Siria è uno stato delicato, forse il maggiore alleato in Medioriente dell’Iran di Ahmadinejad e dell’ayatollah Khameini. Se cadesse il regime di Assad, verrebbe meno l’unica vera sponda degli iraniani e il regime che maggiormente, insieme a Teheran, fomenta gli scontri tra palestinesi e israeliani.