Ed è un peccato, perché l’horror vacui che spinge il musicista del Michigan a riempire ogni attimo del concerto con simboli e significati corre il rischio di distrarre lo spettatore dalla musica, che come al solito è ottima e abbondante: oltre all’ultimo disco al gran completo, Sufjan apre con una delicata Seven Swans, che gli permette di sfoggiare l’ormai classico paio di ali sulla schiena, e chiude con un trittico di canzoni dal suo album più famoso, Illinois, che mandano il pubblico a casa contento.
Nel mezzo c’è spazio per tutto: da alcuni brevi pezzi acustici ai 30 minuti di Impossible Soul, che lo vedono cambiare costumi con la stessa facilità con cui alterna momenti sussurrati a cacofonie orchestrali, fino al finale disco, che vede Sufjan e le sue due coriste/ballerine coinvolgere il pubblico del teatro in un ballo liberatorio. Quando parte l’ultimo dei tre bis, la celeberrima Chicago, la platea viene sommersa da enormi palloni colorati, e tutti cantano in coro una melodia che parla al cuore, lontana dai momenti più cervellotici dell’ultimo disco.
“Vi du (sic) le mie canzoni, vi du il mio cuore” dice Sufjan in uno dei tanti monologhi in italiano durante il concerto: l’impressione è che l’intento sia perfettamente riuscito, forse basta solo qualche piccolo ritocco al filtro che regola come i suoi sentimenti vengono tradotti in musica, e poi sarà perfetto.