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Grecia, Samaras rinuncia a incarico. Verso nuove elezioni

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Giuseppe Timpone

La Grecia sprofonda ogni ora di più nel caos. Le elezioni di domenica hanno sancito il crollo dei primi due partiti, che hanno governato in alternanza tra di loro il Paese dalla fine del regime dei Colonnelli fino a oggi. Parliamo dei socialisti del Pasok e dei conservatori di Nuova Democrazia. Insieme, nell’ottobre 2009 ottennero quasi l’80% dei voti, oggi arrivano al 33%. I socialisti non sono nemmeno più secondo partito, scavalcati dalla sinistra radicale di Syriza. E come vedremo subito, ciò avrà ripercussioni non di poco conto per la gestione politico-istituzionale.

Anzitutto, andiamo alla giornata di ieri. Il Paese è nel baratro, pur dopo avere dimezzato il debito nelle mani dei creditori privati, per effetto di una ristrutturazione concordata con la Troika (UE, BCE e FMI).

Per questo, bisogna fare in fretta il nuovo governo, per rassicurare i mercati. E allora il leader dei conservatori, Antonis Samaras, in qualità di capo del partito di maggioranza relativa (18,9%), è stato ieri ricevuto dal capo dello stato Carolos Papoulias, per ricevere l’incarico di formare il nuovo governo. Questo accadeva nel primo pomeriggio e la Costituzione gli assegna tre giorni di tempo per mettere insieme una maggioranza. Ma clamorosamente, in serata arriva la notizia che Samaras rinuncia all’incarico, non avendo ricevuto alcun input in grado di assicurargli una solida maggioranza in Parlamento. Infatti, il suo partito, pur godendo del premio di maggioranza, ha solo 108 deputati su 300, mentre i socialisti ne hanno avuti 41. In totale, una Grande Coalizione otterrebbe meno della metà dei seggi, improponibile in una fase di emergenza come questa.

E allora, sempre la Costituzione prevede che la palla passi al leader del secondo partito, quel Tsipras di Syriza, che avrà a sua volta altri tre giorni per verificare se gode o meno di una maggioranza. In caso nemmeno Syriza riesca a mettere su un esecutivo, si passa al terzo partito, il Pasok, con altri tre giorni di tempo, dopo i quali il presidente può chiedere un governo di unità nazionale, in mancanza del quale si torna al voto.

Syriza è un partito contrario al Memorandum, ossia alle misure di austerità imposte dalla UE in cambio del secondo piano di aiuti per 130 miliardi. Per questo, non sarà per esso né facile, né conveniente formare un esecutivo, visto che così perderebbe il suo bottino del 16% di voti, ottenuti appena 48 ore fa.

Tsipras, 37 anni, ha già affermato di puntare a un’alleanza con la Sinistra Democratica e i comunisti della KKE. Ammesso che ci riuscisse, si troverebbe con meno di 100 deputati su 300 e oltre tutto, i comunisti hanno già fatto sapere di non volerlo sostenere. E così i contatti potrebbero essere allargati agli altri partiti, come Pasok e Nuova Democrazia, ma anche in questo caso non ci sarebbero le basi per una convergenza, vista la diversità di vedute tra Syriza e gli altri due partiti sul Memorandum.

L’ipotesi più probabile è, quindi, che tra un mese si torni a votare, nel quale caso i due partiti tradizionali e unici favorevoli alle politiche di austerità potrebbero essere ulteriormente ridimensionati, a vantaggio proprio delle ali estreme, come Syriza, comunisti del KKE da un lato e neonazisti di Alba Dorata dall’altro.

La situazione è gravissima, sotto tutti i punti di vista. Senza una gestione credibile della crisi, i mercati hanno già iniziato ieri a crollare, con perdite per la Borsa di Atene intorno all’8% e la maggiore banca del Paese che è crollata del 20%.

Anche ammesso che si riesca a formare un governo, esso non avrà alcuna legittimazione a varare le misure necessarie e volute dalla UE, visto che oltre i due terzi degli elettori hanno premiato partiti anti-Memorandum. Detto senza mezzi termini, la Grecia è in una situazione di paralisi e senza sbocco politico. Non esiste una soluzione compromissoria con il voto popolare di domenica, che non sia la sua fuoriuscita dall’euro. L’idea di tentare ancora una volta la carta del premier tecnico, sostenuto da una maggioranza non molto chiara, è qualcosa di possibile sulla carta, ma che si scontrerebbe subito con le furenti manifestazioni di piazza.

Le probabilità che il Paese sia costretto a dichiarare default sono molto alte, anche perché l’intensa recessione, al suo quinto anno consecutivo, quest’anno si mangerà almeno 5 punti di pil e se non si pone un freno al crollo della ricchezza, si rischia lo scoppio di una guerra civile.

Uno scenario non molto lontano da quanto sta accadendo anche in Italia. Le elezioni amministrative non hanno visto da noi l’avanzata di stalinisti e neonazisti, ma certamente il crollo dei partiti tradizionali e che hanno votato per Monti e la sua austerity. I popoli mettono in forte discussione le misure varate dai loro governi, i quali si trovano privi della legittimazione a proseguire, a maggior ragione se si tratta di esecutivi tecnici, non eletti democraticamente.

I socialisti di Evangelos Vezenilos parlano già di rinegoziare i termini dell’accordo con Bruxelles, cosa che scatenerà senza alcun’ombra di dubbio una battaglia durissima tra Germania ed Europa del Nord e il resto dell’Eurozona.

 

 

 

 

 

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