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Categorie: Ambiente News

Eni, incidente in Basilicata. Si chiede chiarezza

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Liliana Farello

Per gli abitanti di Viggiano, provincia di Potenza, quello di ieri mattina non è stato uno spettacolo nuovo: il rombo simile al boato di un terremoto, l’odore acre simile a quello di uova marce e un’enorme fiammata alta diversi metri, che ha bruciato per oltre un quarto d’ora.

La fiammata si è liberata all’improvviso dalla ciminiera del Centro Oli che domina su tutta la Val d’Agri, dove l’Eni ha impiantato da anni l’omonima concessione per la lavorazione del petrolio. “Si è trattato di un incidente pericoloso per i lavoratori“, è la denuncia della Cgil. Dall’Eni invece sono prontamente arrivate le rassicurazioni: “si è attivata la fiaccola di sicurezza, generando una maggiore visibilità della stessa rispetto alle abituali condizioni operative” è stato il messaggio arrivato appena un’ora dopo l’accaduto.

Non convincono l’Ugl le spiegazioni fornite da Eni su quanto accaduto oggi alle ore 11:30 presso il centro olio di Viggiano, con una sfiammata e un rumore assordante avvertiti nel raggio di diversi chilometri con la percezione di odori acri e pungenti da parte dei residenti della zona“, hanno subito denunciato i segretari dell’Ugl Basilicata, Giovanni Tancredi e Pino Giordano.

Stando a quanto spiegato dall’Eni, invece, la fiammata sarebbe il risultato di un’operazione di sicurezza perfettamente riuscita: in seguito ad un’interruzione dell’alimentazione elettrica, dovuta ad “un’errata manovra” durante le operazioni di ordinaria manutenzione, i gas sono stati depressurizzati e convogliati nella fiaccola che li avrebbe bruciati, evitando così che si accumulassero fino a far esplodere l’intero impianto.

D’altra parte non è la fiamma a preoccupare i cittadini, quanto i fumi che ne sono derivati. Qualcosa del genere era capitato già nel 2011 e già da allora le centraline dell’Agenzia regionale per l’Ambiente avevano cominciato a mettere in allarme. Preoccupanti i dati che ne uscirono: vennero infatti registrati valori di H2S (acido solfidrico fino o idrogeno solforato) anche trenta volte superiori alla soglia fissata dalla Organizzazione mondiale della sanità. Certo, un limite specifico per l’Italia non è mai stato fissato; in compenso l’ha fatto un’organizzazione mondiale, i cui parametri sono quindi più che sufficienti. Quella volta, l’acido solfidrico provocò l’intossicazione di 20 operai della Elbe Italia Sud. Andò bene: in concentrazioni più elevate, questo gas può provocare anche la morte.

L’Arpab sta dunque lavorando per stabilire se la fiammata abbia provocato concentrazioni di H2S superiori alla norma. Presumibilmente i dati verranno pubblicati in tempo reale, come richiesto dall’Organizzazione ambientalista lucana. Inoltre Piero Lacorazza, consigliere Pd, ha fatto pressione affinché il presidente della regione Marcello Pittella convocasse un incontro tra i dirigenti della compagnia e i sindaci dei comuni della Val d’Agri. “Nessun allarmismo – continua Lacorazza -, ma allo stesso tempo massima attenzione ai temi della sicurezza e della salute dei cittadini. È quello che ci chiedono le nostre comunità e che siamo impegnati a fare, tenendo alto il livello di attenzione ed operando in maniera trasparente ed efficace“. Pittella ha dunque annunciato, insieme all’assessore all’Ambiente Aldo Berlinguer, la ripresa al più presto delle trattative tra i dirigenti dell’Eni e gli amministratori locali.

Trattative cominciate durante la precedente legislatura, ma abbandonate con la sua conclusione anticipata. Eppure quello della Val d’Agri non è un problema nuovo per l’Italia, sebbene se ne parli ben poco.
È qui infatti che si trova il più grande bacino petrolifero europeo sulla terraferma, fornitore di circa il 10% del fabbisogno nazionale. Ma il rovescio della medaglia esiste anche in questo caso e si riscontra nelle condizioni di vita degli abitanti.

Già nel 2008 la trasmissione Annozero curò un’inchiesta in cui venivano portati alla luce i disagi degli ex contadini che, con l’avvento delle perforazioni, si erano visti costretti ad abbandonare i propri campi per essere assunti dall’Eni. “Pagano bene“, dice uno di loro, ma con contratti il cui rinnovo di sei mesi in sei mesi era tutto meno che scontato. Difatti, poco ci volle perché i locali venissero sostituiti da forestieri ingaggiati all’occorrenza. Così, del giacimento petrolifero più grande d’Europa ai viggianesi rimane solo l’aria, per altro sempre più tossica.

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Liliana Farello