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Categorie: Cronaca News

Il Papa, durante l’Angelus, ricorda il piccolo Cocò, ucciso come un boss a tre anni

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Domenico Cacciapuoti

Ieri Papa Francesco, dopo la recita dell’Angelus, ha ricordato Cocò Campolongo, il bambino di tre anni ucciso e bruciato sette giorni fa a Cassano Ionio, in provincia di Cosenza, insieme al nonno e a una donna di ventisette anni.

Oggi in questa piazza ci sono tanti bambini e io voglio ricordare Cocò Campolongo, a tre anni bruciato in macchina e ucciso. Questo accadimento su un bimbo così piccolo sembra non avere precedenti nella storia della criminalità. Cocò è di sicuro con Gesù in cielo. Spero che queste persone che si sono macchiate di questo terribile crimine, si pentano e si convertano“.

Cocò a tre anni ha conosciuto la tragedia del carcere nel penitenziario di Castrovillari insieme alla madre, il dolore per la separazione dai genitori e l’irresponsabilità di un sistema che non ha saputo tutelarlo o, peggio, non ha saputo salvargli la vita. A tre anni già sapeva a quali grossi rischi poteva andare incontro. Ma mai avrebbe potuto prevedere tanto, in fondo, era solo un bambino, non certo un boss della ndrangheta calabrese. Eppure gli hanno riservato la stessa fine, ucciso con un colpo in testa, secondo l’autopsia.

In certe zone,come scrive il poeta Ungaretti, la morte si sconta vivendo. Il piccolo Cocò è diventato un simbolo, perché, nel suo caso, la tragedia si è compiuta nel suo aspetto più terribile: l’assassinio. Ma ci sono realtà, soprattutto al sud Italia, dove per tanti bambini come Cocò, sin dalla nascita, la vita è una condanna all’ergastolo, una pena da scontare attraverso un’esistenza veloce e feroce.

Il Papa, con le sue parole, ha voluto non solo ricordare queste drammatiche realtà, ma soprattutto smentire lo stereotipo per cui, in virtù di un presunto codice d’onore, le mafie non uccidano donne e bambini. Pur essendo indiscutibile che questo triplice omicidio sia maturato negli ambienti che coinvolgono i livelli più infimi del sistema criminale, è altrettanto vero che un torto subito in contesti quali una guerra tra cosche per il controllo del territorio o uno sgarro perpetuato tra boss o affiliati, trova l’apice della soddisfazione e del risarcimento colpendo i bambini.

Valentina Guarino, sei mesi, era in auto con i genitori, quando i sicari, affiancato l’abitacolo, iniziarono a sparare all’impazzata. Con lei morì anche il padre, vero obiettivo del feroce agguato ordito nell’ambito di una faida tra clan rivali.

Raffaella Lupoli aveva solo undici anni il 10 giugno 1997, quando, mentre era in auto col padre, due uomini si avvicinarono alla autovettura e fecero fuoco. I proiettili colpirono Raffaella al fianco, al braccio destro e diritto al cuore. Solo una lieve ferita per il padre che, come evidenziato dalle indagini, era stato condannato a morte per avere insidiato la donna di un boss, mentre questi era in galera.

Simonetta Lamberti era una bambina di undici anni uccisa nel 1982 da un sicario della camorra nel corso di un attentato il cui obiettivo era il padre, il giudice Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina, con il quale stava rincasando in auto a Cava de’ Tirreni, dopo una giornata trascorsa al mare.

Annalisa Durante, quattordici anni, muore durante uno scontro a fuoco tra esponenti del clan Giuliano e del clan Mazzarella in un quartiere di Napoli, Forcella, mentre ascoltava con un’amica le canzoni dei suoi cantanti preferiti. Durante tutto il funerale, un gruppo di individui tirati a lustro, su moto lussuose, in macchine decappottabili, assiste alla funzione. Sono i membri del clan Giuliano, con la loro presenza simbolica attestano che nessuno può dominare nel centro storico di Napoli senza il loro volere, o quantomeno senza la loro mediazione. Mostrano a tutti che loro sono ancora i capi, nonostante la morte di Annalisa.

Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, ex-mafioso, divenne vittima di una vendetta trasversale nel tentativo di far tacere il padre. La sua morte ha avuto grande risalto su tutti i giornali, anche perché il cadavere del ragazzo non fu mai trovato, essendo stato disciolto in una vasca di acido nitrico. Prima di essere ucciso, fu tenuto in ostaggio per 779 giorni.

Fu rapito il 23 novembre 1993, quando aveva 12 anni, al maneggio di Altofonte da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestirono da poliziotti, ingannando facilmente il bambino, che credeva di poter rivedere il padre in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. Terribili le parole di Spatuzza: “Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. Lui era felice, diceva ‘Papà mio, amore mio’ “.

La famiglia cercò presso tutti gli ospedali cittadini notizie del figlio, ma quando, il primo dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse alla famiglia con scritto “Tappaci la bocca” e due foto del bambino che teneva in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu subito chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo. Dopo un iniziale cedimento psicologico il pentito non si piegò al ricatto, sebbene fosse angosciato dalle sorti del figlio, e decise di proseguire la collaborazione con la giustizia. Brusca decise così l’uccisione del ragazzo, ormai fortemente dimagrito e indebolito per la prolungata e dura prigionia, che venne strangolato e successivamente sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996, all’età di 14 anni.

Le parole del Papa e le storie di questi bambini dimostrano come anche a loro sia da sempre assegnato un posto da bersagli nella galleria degli orrori dei crimini mafiosi, in quello spazio di ferocia che appartiene alla “disonorata società”.. La criminalità, quando è suo interesse, arriva a livelli di malvagità inaudita, come nel caso dell’omicidio del povero Cocò, che non rappresenta la violazione di un codice etico, perché, di fatto, tale codice non esiste.

Cocò sarebbe potuto diventare un bel ragazzetto ricco e capace di far carriera nel sistema-ndrangheta o un bravo ragazzo che si spaccava la schiena tutto il giorno per quattro soldi per poter sposare la fidanzata e non farla più lavorare in una fabbrica a nero, dieci ore al giorno a cucire borse o vestiti per cinquecento euro al mese o un calciatore, un imprenditore o un professionista. Non lo sapremo mai, con un colpo di pistola hanno posto fine alla sua vita. Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla.

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Domenico Cacciapuoti