Una frase su Instagram, il peso di vent’anni di reality alle spalle, e una domanda scomoda: chi entra consapevolmente in un gioco feroce può dirsi vittima? Nel post di Lorenzo Battistello la televisione smette di essere salotto e torna arena.
Il Grande Fratello non è solo un programma. È un’istituzione della tv italiana, in onda su Canale 5 dal 2000, prodotta da Endemol Shine Italy. Nel tempo ha cambiato forma, pubblico e linguaggio: da esperimento sociale a macchina narrativa, con regole e filtri precisi. Oggi la guida è di Alfonso Signorini (alla conduzione della versione VIP dal 2020 e dell’edizione “mista” dal 2023), con una logica editoriale che punta su storie, conflitti, redenzioni.
Nelle ultime settimane il clima attorno al reality si è scaldato per via delle rivelazioni e accuse rilanciate da Fabrizio Corona sui social e sul suo progetto editoriale. Alcuni contenuti sono oggetto di smentite e non risultano verificati in sede giudiziaria: è bene tenerlo a mente per non confondere cronaca e illazioni.
Qui entra in scena Lorenzo Battistello, ex concorrente della prima edizione del programma. Su Instagram ha scritto: “Se entri in casa dello sciacallo sapendo cosa succede, non sei vittima”. Parole nette, che usano l’immagine dello “sciacallo” per definire il perimetro di responsabilità. Secondo molti lettori il riferimento indiretto tocca nomi noti come Antonio Medugno e lo stesso Alfonso Signorini; Battistello non ha fatto nomi e non ci sono conferme ufficiali su destinatari precisi.
Perché questo post colpisce? Perché sposta il fuoco: non più solo la colpa del “sistema”, ma la consapevolezza di chi accetta di entrare in un reality. Nel dietro le quinte le prassi sono note: colloqui psicologici pre-selezione, accordi di riservatezza, linee guida editoriali condivise. Diversi autori Endemol, in interviste pubbliche, negli anni hanno spiegato che i concorrenti firmano contratti dettagliati e vengono informati delle regole del gioco. È altrettanto vero, però, che esiste una forte asimmetria di potere: chi monta le immagini e chi decide le scalette può orientare il racconto, e non sempre il partecipante ha strumenti per controbilanciare quel frame.
Le squalifiche per frasi o comportamenti ritenuti inaccettabili – come il caso Salvo Veneziano nel 2020 – mostrano che esiste un perimetro chiaro e sanzionabile. Al tempo stesso, la costruzione narrativa di “buoni e cattivi” resta un cardine delle dinamiche televisive: funziona, fa parlare, polarizza. È il motivo per cui la riflessione di Battistello tocca un nervo scoperto: si può invocare il ruolo di “vittima” quando si accetta un terreno di gioco che premia il conflitto?
Le accuse amplificate da Fabrizio Corona – per loro natura controverse e non sempre confermate – alimentano l’idea di un sottobosco di pressioni e patti taciti. Qui è utile prudenza: distinguere tra fatti documentati e narrazioni è un dovere per chi commenta e per chi guarda. Anche perché il patto con il pubblico regge solo se la filiera dell’informazione resta affidabile.
Personalmente, leggo la frase di Battistello come un invito adulto alla responsabilità: conoscere le regole, sapere che ci sono “sciacalli” e comunque decidere se entrare o no. Ma esiste sempre un margine di imprevedibilità, quel varco tra intenzioni e conseguenze dove si gioca la dignità di chi partecipa e la credibilità di chi produce. La domanda rimane: quando scegliamo di entrare “in casa del lupo”, quanto della mappa è davvero nelle nostre mani?