Approvata al Senato l’ultima versione della super-manovra da 54,3 miliardi di euro, spetta lunedì alla Camera iniziare l’esame, che dovrebbe portare in pochi giorni all’ok definitivo.
Sulle cifre e sui contenuti, grosso modo sappiamo già come è andata. Ma poco si ragiona sulle “altre” misure della manovra, ossia di quelle a impatto zero sul bilancio dello stato, ma non sull’economia del Paese.
Parliamo delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. Già quando fu varata la prima manovra a fine giugno, il ministro Tremonti parlò pomposamente di madre di tutte le liberalizzazioni, cioè la riforma dell’art. 41 della Costituzione, quello che disciplina la libertà d’impresa. Disse l’occhialuto ministro che sarebbe stato reso libero tutto quanto non fosse vietato, applicando un principio elementare di scuola liberale. Sono passati due mesi e mezzo e non c’è neanche l’ombra di quella riforma, a maggior ragione l’assenza di tale misura si nota da ieri, quando il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alle misure che riguardano la riforma della Costituzione (abrogazione delle province e vincolo del pareggio di bilancio). Certo, già in sede di dichiarazioni e di promesse, erano stati in tanti, Marcegaglia in testa, ad eccepire che l’art 41 della Costituzione ha una valenza molto formale, perchè si tratta di fare le liberalizzazioni vere. Ma niente, non è cambiata nemmeno la forma. Si pensi, ad esempio, che il testo varato dal governo, che prevedeva la liberalizzazione di farmacie, libere professioni e giochi di stato, è stato semplicemente cestinato dalla maggioranza, il cui tasso di liberalismo è pari a quello dell’era Kruscev in Unione Sovietica, magari rispolverato di tanto in tanto, quando si vocifera di una pseudo-riforma delle pensioni.
Insomma, parte male Alfano, che con questa china non potrà aspirare a presentarsi come un riformatore nel 2013, alla guida del PDL. Malissimo, anzi peggio, arriva Tremonti, che non ha voluto rendere più concorrenziale nemmeno la vendita dell’aspirina.
Non parliamo poi delle privatizzazioni, che restano la macchia più oscura del governo, il quale alla fine della legislatura potrà “vantare” di non avere varato alcun piano di dismissioni di asset pubblici in dieci anni. Troppo per potere continuare a definire di destra il governo Berlusconi. Se l’asso Casini, alla guida di una ipotetica coalizione di centrodestra nel 2013, sembrava solo una strategia politica, adesso sembra più un bisogno culturale, perchè tra ex e attuali socialisti, colbertiani e sociali all’Alemanno, quello del PDL è un ammasso di illiberali, che ha poco a che spartire col suo stesso premier.