Orgoglio padano. Bossi chiede scusa per i figli e Mauro non molla

Alla festa per l’orgoglio padano, che si è tenuta ieri a Bergamo, migliaia di manifestanti sono scesi in piazza con scopa in mano, per simboleggiare la voglia di fare pulizia nel partito del Carroccio, travolto in una sola settimana da un’inchiesta giudiziaria sull’uso dei fondi pubblici, che si allarga a macchia d’olio di ora in ora. Sul palco erano presenti Roberto Maroni e il Senatùr Umberto Bossi, che secondo le indiscrezioni della vigilia non avrebbe dovuto parlare. Invece, l’ex capo ha parlato e ha forse dato una lezione di stile ai tanti politici degli altri schieramenti, che oggi criticano tanto la Lega, ma che non hanno mosso un dito nel recente passato, per rimuovere coloro che sono stati accusati anche di reati molto gravi.

Bossi prende la parola e chiarisce subito che a suo avviso il Carroccio sarebbe vittima della stampa centralista canaglia, la quale vorrebbe far fuori il partito. Detto questo, non si nasconde dietro a un dito. Pur confermando di non avere mai preso un soldo, Bossi afferma che bisogna fare pulizia e non si deve guardare in faccia nessuno, quale che sia il suo cognome.

E forse intenerisce il Senatùr, quando constata che avrebbe dovuto fare come Berlusconi, che ha mandato i suoi figli a studiare all’estero, per sottrarli alla demonizzazione politica della stampa interna. Invece, spiega di avere acconsentito che suo figlio entrasse in politica, perché aveva seguito tutte le feste della Lega e aveva una gran voglia di darsi da fare. E’ stato un errore, ammette, e chiede scusa per il comportamento di chi porta il suo cognome. Ma se qualcuno aveva temuto contestazioni alla sua persona, ieri si è dovuto ricredere. C’è stato solo qualche fischio all’indirizzo dell’ex tesoriere Belsito, citato da Bossi nel suo discorso, ma il popolo leghista era tutto stretto intorno ai suoi vertici e la classica distinzione tra maroniani e “cerchio magico” semplicemente non è mai esistita tra gli elettori e i militanti, essendo relegata alle stanze dei bottoni del Carroccio.

Nessuna pubblica umiliazione di Umberto, che ieri ha ancora una volta riaffermato il peso della sua leadership ancora oggi in parte carismatica, ribadendo le ragioni del suo passo indietro e dando una stoccata mediatica a quanti scrivono che il suo partito è sempre stato nei fatti uguale agli altri. Con le dimissioni sue e del figlio in poche ore e con la rimozione degli altri dirigenti anche di spicco, il Carroccio sta dimostrando, quanto meno, di distinguersi dalle altre formazioni politiche nel modo di affrontare la questione morale che lo coinvolge.

Dicevamo che l’opera di rimozione continua. Ieri, ad esempio, è caduta un’altra testa importante e nel cuore del potere padano. Si è dimesso il neo-segretario provinciale della Lega a Varese, Maurilio Canton, che era stato eletto solo poche settimane fa in un clima burrascoso di scontro tra le due anime del Carroccio.

E non è tutto. Adesso, la prossima testa che sarà fatta cadere è quella di Rosy Mauro, vice-presidente del Senato. La donna, soprannominata la “badante”, per via della sua costante presenza in tutti i passi pubblici e privati di Bossi, ha ribadito a “Porta a Porta” da Bruno Vespa le sue ragioni, smentendo categoricamente di avere mai preso soldi dal partito, ma che tutti i pagamenti sarebbero tracciabili e in favore del Sin.pa, il sindacato padano da lei guidato. Respinge le ipotesi di dimissioni, così come le accuse sulle false lauree in Svizzera, acquistate con i soldi della Lega.

Ma ieri è stato il triumviro Roberto Calderoli a chiederle pubblicamente un passo indietro, minacciando altrimenti che sarà la Lega a dimissionarla.

Il popolo leghista è in fermento, deluso, arrabbiato, ma non rassegnato. Le teste rotolano già in Via Bellerio, mentre salgono a cinque le procure che indagano in tutta Italia, fornendo più di un sospetto che si tratti di un’operazione molto mediatica, tesa a screditare l’unica forza realmente all’opposizione del governo Monti.

Ma la voglia di pulizia non è solo dei padani. Oggi, Alfano, Bersani e Casini s’incontreranno fugacemente, al fine di affrontare il nodo del finanziamento pubblico ai partiti, al centro di una vera rivolta popolare, che finora si ferma alle parole, ma che rischia di divenire incandescente, qualora il tema non fosse affrontato con efficacia e tempestività.

Le posizioni tra i partiti sono molto diverse. Il PD difende l’impostazione del finanziamento pubblico, mentre il PDL sarebbe anche propenso per un sistema basato su donazioni volontarie e private, anche con un 5 per mille in dichiarazioni dei redditi.

Altro motivo di divergenza consiste nei controlli. Alfano ha proposto la creazione di un’authority ad hoc (l’ennesima!), che si faccia carico di certificare i bilanci dei partiti. Il PD sarebbe propenso, invece, ad affidare alla Corte dei Conti tale compito. E gli stessi giudici contabili rivendicano la competenza in materia, che già in parte è loro.

Restano in ballo centinaia di milioni di euro all’anno di finanziamento pubblico ai partiti, circa 190 milioni dopo i tagli del 2010 e 2011, che hanno creato il paradosso di un sistema, che alla fine del 2010 vedeva le formazioni politiche avere in banca disponibilità liquide per oltre 255 milioni. Un tesoretto senza alcuna giustificazione e documentazione.

 

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