La vita di Adele, la vita di tutti

Per chi non lo sapesse, La vita di Adele, il film del tunisino (trapiantato in Francia) Abdellatif Kechiche che a Cannes lo scorso maggio ha messo tutti in fila (compreso il miglior lungometraggio italiano dal 2000), è tratto dal graphic novel Il blu è un colore caldo della francese Julie Maroh. Blue is the warmest color è anche il titolo con cui l’opera di Kechiche è stata esportata negli States, dove è uscita con divieto per minori di 17 anni e addirittura uno stop alla sua distribuzione in Idaho.

Blu è il colore dei capelli della ragazza dei sogni di Adèle, liceale di quindici anni di famiglia borghese e, come tutte le fanciulle della sua età, alle prese con le prime esperienze amorose ed erotiche. Adèle frequenta il compagno di scuola Thomas, che si invaghisce di lei, ma dentro di sè continua a sentire un vuoto. Un vuoto che verrà colmato dall’incontro con la ragazza dai capelli blu, Emma, prima intravista per strada, poi ritrovata in un locale gay. Adèle nel frattempo cresce, inizia a lavorare, si innamora di Emma, con cui va a vivere. Ma da una festa a casa loro, tutto comincia a cambiare.

Già dal titolo, che differisce da quello del graphic novel (e ispirato a La vita di Marianna di Marivaux, citato in principio d’opera), Kechiche compie una scelta ben precisa: mostrarci, attraverso l’esistenza di un individuo, la vita vera. Ed in effetti, al cinema, sprazzi di vita così pura e genuina in tempi recenti si sono visti raramente.

Il regista franco-tunisino rinuncia a qualsivoglia artificio formale per rendere attraente il suo film: ricorre semmai a fenomeni della lingua parlata (deissi, onomatopee, ripetizioni) e ossessivi primi piani, carnali e miracolosamente non morbosi, per dipingere un flusso d’esistenza senza soluzione di continuità. Ha una missione pressoché impossibile, rendere digeribile un’opera di quasi tre densissime ore, e ci riesce a tratti: non è da tutti essere in grado di mantenere costante la tensione, sia nei momenti in cui prende forma il dramma, sia quando si zoomma su nasi gocciolanti e bocche masticanti. La vita di Adele è una pellicola scomoda e a tratti sgradevole, e proprio per questo pura e innocente.

La vita di Adele, la vita di tutti

Kechiche è altresì aiutato dalle performance delle due straordinarie protagoniste, tutte e due parigine: Lèa Seydoux, nel ruolo più intenso della sua carriera, e la giovanissima (quasi ventenne) Adèle Exarchopoulos. In grado di recitare già solo con occhi e labbra, si mettono a nudo più coi loro sguardi, a volte rapidi e fulminanti, altre indecisi e sognanti, che nel mero atto fisico, palesato in maniera ampiamente esplicita per tutta la pellicola. Perchè l’opera di Kechiche non vuole lo scandalo, vuole solo mantenere intatta la verità intrinseca che porta avanti senza compromessi.

L’errore più grande che si possa commettere sarebbe spacciare La vita di Adele per un inno alla tolleranza, o peggio, la storia contrastata di un amore gay. Siamo di fronte ad una semplice storia d’amore, dove l’omosessualità non è che un pretesto: se Adèle si fosse innamorata di un ragazzo la sostanza non sarebbe cambiata. Ecco perché il film di Kechiche va spogliato di tutte le etichette cucitegli addosso, che non fanno che sminuire la sua portata.

Siamo piuttosto al cospetto di un romanzo di formazione, che accompagna Adèle dalla fine dell’età adolescenziale alla conquista non tanto di un’indipendenza (che forse non troverà/ troveremo mai), quanto della consapevolezza dell’esistenza di una gerarchia ben precisa: nel suo percorso anti-addiction ricerca-dipendenza-disintossicazione (compiuto da chiunque subisca un abbandono) Adèle scoprirà a sue spese che la vita (dunque l’amore) obbedisce alle leggi del dio del Caos. E che nella fattispecie, l’amore, come ci insegnava anche Cronenberg in M. Butterfly, fondamentalmente non si riferisce ad altro se non ad un ideale. Un ideale astratto e implacabile che può manifestarsi in un corpo, così come in cento corpi (e cento modi) diversi.

La vita di Adele in definitiva si configura senza fronzoli come un’opera innegabilmente universale: una scossa elettrica al cervello, una freccia nel cuore, un pugno allo stomaco.

[PHOTO CREDITS: eksisinema.com]

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