Il talento che salvò dalla morte Wilhelm Brasse, il ritrattista di Auschwitz

Cinquantamila volte ha guardato la morte negli occhi di ogni deportato che varcava quel cancello maledetto, su cui grava beffardo il motto “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Ironia della sorte, fu proprio il lavoro a salvare dall’imminente morte nelle camere a gas il fotografo di Auschwitz, Wilhelm Brasse, austro polacco internato nel 1941 con il numero 3444.

A un anno dalla sua morte avvenuta il 23 ottobre 2012, Luca Crippa e Maurizio Onnis raccontano la sua vita ne Il fotografo di Auschwitz, un romanzo-verità che raccoglie anche molti di quegli scatti fatti durante la sua permanenza nel campo di concentramento, a servizio delle SS.

Lo salvò la sua passione per la fotografia, arte che dovette abbandonare per sempre una volta libero nel ’45. Troppi visi scarni e spaventati aveva dovuto ritrarre per poter tornare a fare il fotografo. I ricordi di tutte le persone che negli anni si susseguirono davanti al suo obiettivo non gli permisero mai più di prendere in mano una macchina fotografica, ma lui nel campo dell’orrore ci tornò molte volte. Le sue fotografie sono appese sui muri della morte, per documentare e far sì che nessuno dimentichi. Foto che colpiscono ritraendo a volte diversi membri di una stessa famiglia, soggetti terrorizzati e scarni, bambini e bambine sottoposti agli esperimenti “scientifici” del dottor Josef Mengele.

Per cinque anni si vide sfilare davanti i volti di ebrei, zingari, prigionieri e bambini. Tre scatti veloci, impressionando le viste d’ordinanza: fronte, profilo e tre quarti. Come se quelle foto avessero qualche rilevanza nell’identificazione degli internati, già annientati come persone e sostituiti da numeri, allineati in serie. Come se le loro identità non fossero già state annullate una volta entrati nei campi dell’orrore. Una tappa iniziale, derisoria, ma niente in confronto a quello che sarebbe stato il seguente processo folle di eliminazione.

Così dovette pagare la sua salvezza, ritraendo i morituri sotto una luce violenta, come osservatore impotente davanti al grande sterminio di massa. Un gioco per il kapò, una beffa per gli aguzzini annoiati, ma non per Wilhelm, che lottò a rischio della vita per salvare una parte di quelle fotografie, prove autentiche degli orribili crimini messi in atto dai nazisti, che costituiscono oggi una drammatica testimonianza dell’orrore dell’Olocausto. È grazie a Brasse che sappiamo come tutto ciò avvenisse praticamente e la veridicità delle terribili azioni di sterminio.

È rinchiusa lì la verità, negli occhi turbati e rassegnati degli internati, nelle espressioni autentiche dei bambini, vittime loro più di chiunque altro. Czeslawa ha la testa rasata e il labbro sanguinante, Rozalia ha un pettinino nei capelli biondi e l’innocenza traspare dal suo sguardo, mentre Krystyna veste una camicia a righe troppo grande per il suo corpicino, segno di un’infanzia rubata.

Percepire la storia per sentito dire, immagazzinando parole che poi perdono significato con il tempo non ha alcuna utilità. Le immagini invece raccontano e toccano nel profondo, mantenendo viva la memoria. Sì perché un’azione di tale spessore non va certo dimenticata. Le vittime sono lì, immortalate ad una ad una e questo nessuno può negarlo.

Come si può negare la verità nuda e cruda ritratta e appesa lì, sui muri della morte?

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