Ancora un aumento dei tassi in Cina, il quinto dal mese di ottobre, quando è stata posta fine alla politica monetaria accomodante di oltre un biennio. Ieri, la Banca Popolare Cinese ha alzato i tassi repo al 6,56%, in crescita dello 0,25% o 25 punti base, mentre i tassi sul deposito sono stati aumentati al 3,50%.
Il motivo di tale ennesimo aumento in pochi mesi, il terzo nel 2011, è da ricollegarsi all’eccessivo surriscaldamento dei prezzi, con un tasso di inflazione che a maggio ha raggiunto il 5,5% e si prevede che a luglio possa anche oltrepassare la soglia del 6%, mettendo in allarme il governo di Pechino, oltre che le autorità monetarie.
Crescono i prezzi dei beni alimentari, specie di carne di maiale e aglio, fonti essenziali per la popolazione cinese, che hanno visto aumentare i prezzi in modo vertiginoso, negli ultimi tre-quattro mesi.
Ma a Pechino si monitorano anche i prezzi dei beni “no food” e si valuta negativamente la loro crescita al 2,9%, su base annua, in rialzo sulle previsioni a maggio. Il governo teme un effetto contagio tra i vari segmenti del paniere e ha adottato così il quinto aumento dei tassi in nove mesi, dopo avere ripetutamente accresciuto il coefficiente di riserva obbligatorio per le banche, oggi al 21,5%, al fine di diminuire la massa monetaria in circolazione.
E che l’obiettivo principale del governo sia la lotta all’inflazione lo dimostra anche il fatto che questa stretta arriva dopo la pubblicazione dei dati sulla produzione manifatturiera delle pmi, ai minimi da 28 mesi. Tuttavia, Pechino è più allarmata dagli effetti devastanti di una crescita eccessiva dei prezzi sulla pace sociale, che delle conseguenze di un rallentamento della crescita del pil.





