Live: Fleet Foxes @ Estragon, Bologna – 19 novembre 2011

Chi se lo sarebbe aspettato? Estragon strapieno e pubblico decisamente variegato (dagli adolescenti ai sessantenni, con in mezzo più di due generazioni) per la seconda data italiana dei Fleet Foxes. Robin Pecknold e compagni sono saliti sul palco in perfetto orario e hanno intrattenuto la platea per due ore, con un repertorio scelto con cura dai due album finora pubblicati e dall’Ep Sun Giant, che li ha fatti scoprire al mondo solo tre anni fa.

L’apertura con la delicata “The Plains/Bitter Dancer” mette già in chiaro le cose: splendidi intrecci vocali si uniscono ad un sound prevalentemente acustico, che lascia spazio anche a strumenti inusuali come mandolino, harmonium e contrabbasso. Le “agili volpi” sul palco si presentano in sei, con barbe e camicie a quadri d’ordinanza, e con l’aria di non essere ancora pienamente a loro agio con la fama acquisita: pochissime le interazioni con il pubblico, annegate in una piacevole timidezza, che sembra confermare l’interesse (più volte dichiarato dallo stesso Pecknold) di volersi concentrare, quasi in maniera ossessiva, solo sulla musica.

Nascosti dietro al loro arsenale di strumenti, i sei di Seattle hanno comunque confermato tutte le loro doti: la voce carismatica del cantante ha condotto gli altri con mano sicura nei momenti d’insieme (“Battery Kinzie”, “Your Protector“), mentre un’atmosfera vagamente sacrale è circolata durante alcuni delicati brani solisti (“Blue Spotted Tail” e l’inedita “I Let You”). Il pubblico ha apprezzato senza esagerare: per gran parte del concerto i fan sono rimasti compostamente in silenzio, sussultando solo per i pezzi più noti (“White Winter Hymnal, “Mykonos”) e amplificando la sensazione di assistere ad un rito collettivo. La natura essenzialmente contemplativa della musica è stata ben accompagnata da alcune videoproiezioni a tema “naturale” (la via Lattea e alcune montagne innevate), rispetto alle quali però le animazioni geometriche e ripetitive preparate dal regista Sean Pecknold (fratello di Robin e già autore del clip di “Mykonos“) hanno ancora una volta mostrato i loro limiti.

Tra esecuzioni praticamente perfette (“Sun It Rises”, “He Doesn’t Know Why” “Bedouin Dress”), e altre che dal vivo non hanno convinto del tutto (il singolo “Grown Ocean”), la band è riuscita comunque a far rivalutare anche i momenti meno convincenti del secondo album (l’interminabile “The Shrine/The Argument”), chiudendo con una liberatoria “Helplessness Blues”.

La sensazione finale è quella di una band di enorme talento, che in futuro potrà raggiungere risultati ancora più eclatanti attraverso una maggiore consapevolezza delle proprie risorse. Ma che soddisfazione, per una sera, vedere sul palco sei ragazzi assolutamente normali, la cui unica particolarità è quella di essersi dedicati, anima e corpo, alla loro passione.

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