Taiwan, vince lo status quo alle presidenziali

Ieri lo stato del Taiwan era chiamato ad esprimersi per il rinnovo della carica presidenziale. Erano tre gli sfidanti che ambivano alla prima carica dello stato: l’uscente Mao Ying-jeou, la leader democratico-progressista e filo-indipendentista Tsai Ing-wen e il filo-cinese Soong Chu-yu. Si tratta di tre figure diverse tra loro, la cui vittoria dell’uno o dell’altro ha un significato ben preciso. Ma alla fine, forse con un pizzico di sorpresa per gli osservatori cinesi, il presidente uscente è stato riconfermato con il 51,6% dei voti, mentre la leader Ing-wen si è piazzata al secondo posto e il filo-Pechino Chu-yu è risultato essere solo terzo.

A ben vedere, si è trattato di un esito favorevole paradossalmente sia alla Cina che agli USA. Pechino si è assicurato un presidente dialogante, amico, sebbene non si sia mai espresso per una vera riunificazione del Taiwan con la Cina. Gli americani hanno evitato una vittoria formalmente a loro favorevole, ma che avrebbe creato più di un problema nei rapporti con l’amico-avversario cinese.

Mao Ying-jeou è, quindi, l’uomo della conservazione degli equilibri tanto contestati in patria, ma allo stesso tempo tanto rassicuranti rispetto a un drastico mutamento degli equilibri geo-politici. Formalmente, il Taiwan è in guerra con la Cina dal 1949, anno in cui i nazionalisti, sconfitti da Mao, si rifugiarono in questa piccola appendice dell’immenso impero cinese, in attesa di riconquistare il resto del Paese.

Per Pechino, Taiwan è Cina, mentre per Taiwan, la Cina non è il proprio stato di appartenenza. Un’ambiguità politica che si scontra con l’elemento unificante della lingua e della cultura, ma anche con la necessità di avere buoni rapporti di vicinato.

Per questo, la soluzione di una svolta radicale pro-indipendenza resta un’ambizione solo teorica, nonché un tema al limite del tabù a livello internazionale. Si cerca di rimarcare la propria sovranità nazionale, che nei fatti esiste da 60 anni, ma allo stesso tempo non si vuole forzare la mano con azioni e parole d’ordine troppo radicali.

E Mao Ying-jeou ha vinto per la sua politica dei tre no: no all’indipendenza, no all’unificazione e no alla guerra. Una forma di doroteismo pragmatico in salsa orientale.

 

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