Facebook, niente avvio brillante. Ipo delude e dubbi su business

Lo scorso venerdì, Wall Street ha tenuto a battesimo la sua Ipo più importante nel mondo di internet, per dimensioni, della sua storia. E la seconda più grande in assoluto, dopo quella di Visa. Quando nel 2004 si quotò in borsa il colosso di internet, Google, la sua capitalizzazione complessiva fu di 23,4 miliardi, un valore che all’epoca fu giudicato enorme, eccessivo, forse non sostenibile. A distanza di otto anni, la stessa società vale in borsa circa 9 volte tanto, sconfessando gli scettici. Fu una scommessa vinta, insomma, ma che si basava su un modello concreto e vincente di business. Venerdì, invece, accanto all’entusiasmo dei piccoli risparmiatori, che attendevano da tempo di investire in una società così grande e famosa in tutto il pianeta, avanzava il timore dei grandi investitori, della finanza più concreta, cinica, che non si fidano tanto dell’offerta del giovane Mark Zuckenberg.

E così, con una mezz’ora di ritardo, partono le contrattazioni delle 421,2 milioni di azioni Facebook, offerte dalla società a un valore compreso tra un minimo di 34 dollari e un massimo di 38 dollari. Agli inizi di febbraio, quando di contrattò con la Sec (la Consob americana) l’Ipo, il range era stato previsto in 28-35 dollari, ma è stato innalzato proprio alla vigilia della quotazione.

A Wall Street, pertanto, è stato quotato il 15% dell’intero capitale sociale, molto di più di quella percentuale tra il 5 e il 10%, che era stata inizialmente prevista. E quando sugli schermi del circuito Nasdaq è apparso il valore di contrattazione, pari a 42,05 dollari, il top management e gli azionisti del social network hanno potuto festeggiare senza esitazioni. Hanno realizzato in pochi minuti oltre 16 miliardi, corrispondenti a un valore complessivo di capitalizzazione di 104 miliardi. Il prezzo superiore ai 38 dollari massimi previsti è dovuto al fatto che gli acquirenti hanno a loro volta venduto immediatamente il pacchetto a un valore superiore, realizzando un guadagno sulla differenza di prezzo. Il quale, dopo un’ora dall’inizio delle contrattazioni segnava un ottimo 45 dollari, pari a un rialzo del 23,6% sul valore massimo di emissione delle azioni. Un avvio brillante, dunque, ma che si sgonfia subito dopo, quando dagli schermi della borsa americana ci si accorge che il prezzo delle azioni cede ora dopo ora, arrivando a chiudere sugli stessi valori iniziali, ossia a 38,23 dollari, appena al di sopra del prezzo massimo offerto dalla forchetta dell’Ipo.

Possiamo parlare di flop, di insuccesso, di batosta per la creatura di Zuckenberg? Da un punto di vista dei numeri, non esattamente. Le azioni sono state tutte vendute e al prezzo massimo previsto. L’obiettivo della società è stato raggiunto in pieno. D’altronde, se il prezzo di chiusura fosse stato più alto, tale differenza sarebbe stata solo a beneficio degli acquirenti, non degli azionisti emittenti. Tuttavia, il fattore psicologico non è secondario, in questi casi. Ci si attendeva un boom e ci si è ritrovati con una prima seduta “discreta”.

Ma lo scetticismo era nell’aria. Non solo il periodo nero sui mercati induce generalmente gli investitori a evitare di puntare a un’altra bolla speculativa, ma grandi azionisti di Facebook, come il colosso bancario Goldman Sachs, avevano preannunciato la vendita di parte molto rilevante del loro pacchetto posseduto, fino alla metà.

Il motivo è semplice: Facebook sarebbe sopravvalutato, mentre poco si sa sul suo modello di business e sulle prospettive. Torniamo, ad esempio, a Google. Questi quota oggi intorno al doppio di Facebook. Tuttavia, la prima ha un rapporto tra utili e valore di borsa di 1 a 19, con utili nell’esercizio scorso per 10,65 miliardi di dollari, mentre Palo Alto produce utili per meno di un centesimo del suo valore di capitalizzazione. Nel 2011, il fatturato sociale è stato di 3,7 miliardi, gli utili di un miliardo, a fronte dei 104 miliardi di valore assegnato a Wall Street. Vogliamo parlare di Apple? Utili netti per 26 miliardi nel 2011, a fronte di un valore attuale di capitalizzazione intorno ai 500 miliardi. Rapporto di 1 a 19.

A conti fatti, dunque, Facebook mostra un livello di profitti, pari a meno di un quinto, rispetto al valore di capitalizzazione, in relazione agli altri colossi del settore internet. Non è un fatto che giustifica in sé una corsa all’acquisto delle sue azioni, fermo restando che la società potrebbe godere di un grosso potenziale inespresso. Ma non è stato comunicato alcunché da parte dei manager di Zuckenberg. Non sappiamo come essi vogliano trasformare in migliori profitti gli oltre 900 milioni di utenti iscritti in tutto il pianeta.

Ad oggi, anzi, sappiamo che gli utili del primo trimestre hanno mostrato un cedimento su base annua del 12%, a fronte di una crescita del fatturato del 45%. Calcoli alla mano, Facebook riesce oggi a realizzare un utile di appena poco più di un dollaro per utente. Sembra davvero poco, se si pensa che almeno metà degli iscritti si connette quotidianamente al social network.

Il maggiore ricavo, pari all’82% degli introiti totali, è dato dalla pubblicità. Ma un inserzionista non certo secondario, come General Motors, ha appena annunciato che non farà più pubblicità su Facebook; un segnale, che non lascia certo sereni, specie se manca una certa trasparenza alla comunicazione dei dati da parte della società.

 

 

 

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