Tra meno di un mese, i greci saranno chiamati alle urne, per eleggere il nuovo Parlamento. In realtà, si tratta di un appuntamento elettorale di estrema importanza, perché da questo esito dipenderà il destino di Atene nell’Eurozona e più in generale della moneta unica europea. Stando ai sondaggi, le forze contrarie al Memorandum d’intesa, firmato dal governo tecnico di Lucas Papademos, lo scorso febbraio, potrebbero ottenere ancora una volta la maggioranza dei seggi, specie se la sinistra radicale di Syriza dovesse attestarsi come primo partito e ottenere così i 50 deputati del premio di maggioranza. A quel punto, essendo il Memorandum indispensabile per la ricezione degli aiuti della Troika, la Grecia andrebbe nello stesso momento sia a sbattere contro il default, non avendo liquidità sufficiente in cassa, sia a uscire dall’Area Euro, dovendo tornare alla dracma, la vecchia moneta nazionale.
Tuttavia, il processo sarà dolorosissimo. La reintroduzione della vecchia moneta comporterà un’immediata svalutazione contro l’euro, che si attende fino al 70% e che avverrebbe in un solo istante. Nel giro di qualche millesimo di secondo, i greci si troverebbero, nel privato come nel pubblico, a essere indebitati in una valuta (l’euro), che ora vale molto di più, rispetto alla dracma, con cui sono stati ridenominati gli stipendi.
Facciamo un esempio. Se una famiglia greca oggi ha uno stipendio fisso di 1500 euro e ha un mutuo di 500 euro al mese, questo oggi pesa per un terzo del suo reddito. Ma se la Grecia tornasse alla dracma e questa si svalutasse, poniamo, del 70%, ciò significa che lo stipendio della famiglia sarebbe convertito al tasso fissato dal governo, ai tempi in cui il Paese fu accolto nell’Eurozona, cioè a 340 dracme per euro. Tuttavia, sul mercato la moneta nazionale potrebbe svalutarsi a un cambio anche di 500-600 dracme per euro. Nell’esempio di cui sopra, la famiglia riceverebbe uno stipendio di 510.000 dracme, mentre la rata del mutuo sarebbe di circa 289.000 dracme (500 euro x 578 dracme/euro, pari a una svalutazione del 70%). In sostanza, la rata del mutuo non assorbirebbe più un terzo dello stipendio della famiglia, bensì il 57% circa, finendo per essere insostenibile. E così come per la famiglia, il discorso varrebbe per ogni altro privato o ente pubblico indebitato (in euro). Ergo: la Grecia sarebbe sconquassata da una moltitudine di default, in primis, dello stato, che si ritroverebbe con 250 miliardi di euro di debito, che con un tasso di cambio svalutato del 50-70%, porterebbe il settore pubblico ad avere un debito di almeno il 180% del pil nazionale.
Più in generale, il rischio è di piombare nella Germania del 1923, quando i tedeschi, a causa dell’iperinflazione, si trovarono con prezzi fuori controllo, tali da non essere più credibili, al punto che il Paese tornò per mesi a un sistema di baratto.
Per quanto l’ipotesi possa sembrare ironica, fantasiosa, essa dovrebbe al contrario essere seriamente presa in considerazione, specie per gli scambi di portata limitata e per beni e servizi di valore abbastanza certo. Il baratto, ossia lo scambio tra beni e servizi, eviterebbe agli stipendi di essere decimati dall’impennata dei prezzi e dalla perdita dell’unità di misura dell’euro, che creerà il caos per mesi, a causa di altre unità, come appunto i debiti, che dovranno continuare a essere ripagati in euro, ossia in dracme, ma sul tasso di cambio fisso di 340 a 1, come imposto nel 2004.
Tuttavia, il problema è che non tutto può essere intermediato attraverso il baratto, sia per la complessità dell’economia moderna, sia anche perché moltissimi dei beni e dei servizi acquistati oggi rientrano in un’economia standardizzata e formale, che non ammetterebbero tale metodo. E così, se sarebbe da un lato preferibile acquistare alcuni beni di base, cedendo in cambio altri beni (pane, pasta, etc.), non si può dire la stessa cosa di una rata del mutuo, perché una banca non accetterebbe mai una mucca o un carico di farina, in cambio. Ma anche questo discorso non è detto che non possa essere meglio definito. Ad esempio, sarebbe conveniente per i greci trasformare i loro risparmi depositati ancora in banca in investimenti in beni rifugio, come oro, altri metalli preziosi, opere d’arte.
Da un punto di vista generale, sarebbe preferibile che i greci si facessero pagare per alcuni mesi il loro stipendio in lingottini d’oro, in argento, etc., che li tutelerebbero dalla perdita del potere d’acquisto dovuto alla svalutazione, mentre nel caso si abbiano rapporti di debito con controparti e antecedenti il ritorno alla dracma, tale conversione dovrebbe avvenire prima di lasciare l’euro, in modo da acquistare i beni rifugio con minore quantità di dracme, grazie ancora al rapporto di cambio fissato dal 2001. In questo, però, il problema è che difficilmente un privato contrae un debito, se già dispone di liquidi in banca o investiti altrove, per cui ci sarebbe ben poco da convertire.
Anche questo sistema sarebbe di fatto un baratto, nel senso che la moneta sarebbe sostituita da beni diversi, unità di riferimento per eccellenza nella misurazione (e conservazione) del valore dei beni e servizi nel tempo.
Idealmente, buona parte dell’impatto negativo della fuoriuscita dall’euro potrebbe essere evitata ricorrendo a queste forme di sostituzione della moneta, il che avrebbe anche il vantaggio di abbassare la massa monetaria in circolazione e, quindi, anche dei prezzi.
D’altronde, la Germania nel 1923 ritirò i vecchi marchi dalla circolazione, emettendo una nuova moneta, al fine di creare una cesura psicologica tra un prima e un dopo. E funzionò, fino all’entrata dei tedeschi nell’Eurozona.