L’ assemblea nazionale del Pd? Un disastro

Durante l’estate la direzione del Partito Democratico ha deciso di convocare l’assemblea il 20-21 settembre. Sembrava fatta: finalmente il congresso poteva essere fissato, finalmente si metteva un punto alla stancante discussione su regole e statuti, finalmente si incominciava a parlare di contenuti e idee.
Erano questi i pensieri che assalivano migliaia di militanti fino a pochi giorni fa. Potevano essere i due giorni di “liberazione”, quasi un sospiro, un “riprendere il fiato” dopo una lunga salita, che dalle elezioni di febbraio ad ora aveva spompato gli addetti ai lavori. E non solo.

Venerdì si è riunito il parlamentino del PD: 939 membri, che quattro anni fa erano per il 53% bersaniani, 29% franceschiniani, e 18% per Marino. L’età media è molto alta: oltre il 50% ha militato in DC-PCI e più dell’80% nei DS-Margherita. Politici di lungo corso, certamente non improvvisati, ma neanche nativi democratici.

Venerdì Epifani avrebbe dovuto rendere note regole e date. E invece ecco un lungo discorso su Siria, crisi, Berlusconi, Letta. Gli ultimi minuti si sofferma sul congresso: la data proposta è l’8 dicembre (la mediazione tra chi voleva il 15 e chi voleva farle a fine novembre), ma le regole non sono ancora state decise.
Si diffonde una voce: la commissione che per settimane doveva discutere sulle regole, non era giunta ad accordi.

Il giorno dopo, in un clima di concordia generale, parlarono i quattro candidati alla segreteria. Bei discorsi, belle parole, grandi progetti. Un giovane militante che ha seguito tutti i lavori da casa poteva finalmente essere orgoglioso del proprio partito.
Ma l’orgoglio dura poco. Dopo qualche ore, dopo la pausa pranzo, arriva la dichiarazione di Epifani: manca il numero di delegati per cambiare lo statuto. Quindi? Quindi tutto è rimandato alla direzione del 27 settembre.

Ergo: ad agosto si è fatta una direzione che ha rimandato all’assemblea, che ha rimandato alla direzione. Non si può dire che il metodo Letta non stia facendo scuola.

Così il cerino viene rimandato in mano alla direzione che, per norma, non può cambiare lo statuto. Le regole rimangono queste? Cioè quelle che hanno eletto Veltroni e Bersani segretari? Non si sa.
In teoria non si sa neanche se il congresso si farà. È evidente che qualcuno remi contro il congresso (i fanatici della stabilità del governo? la dirigenza che – chiunque vinca i congressi – sarebbe mandata a casa?). I tempi infatti sono troppo ristretti per fare prima i congressi locali, poi quelli nazionali in concomitanza con quelli regionali.
Il tutto deve finire il giorno dell’immacolata concezione, e, lo scopo di alcuni, è far slittare tutto nel 2014. L’ironia della sorte è che, se il governo dovesse cadere domani, Epifani sarebbe il candidato premier del PD.

Oltre alla presa in giro a tutti i delegati in assemblea il 20-21 settembre si è consumata la solita presa in giro ai militanti e tesserati (sempre meno: solo 250 mila gli iscritti, in Italia), elettori (sempre meno anche questi). Un partito che dovrebbe rappresentare riformismo, progressismo, cambiamento, è in mano ad una dirigenza che fa della conservazione il proprio cavallo di battaglia. Non importa se in questo modo si indebolisce e ridicolizza tutto il partito. L’importante per qualcuno è mantenere la cadrega che si fa sempre più traballante.

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