Improvvisamente due colossi del mass market decidono che metterci il nome fa la differenza.
Coca Cola e Ferrero, con Nutella, si producono in etichette personalizzate con il nome della persona che le acquista.
Andy Warhol diceva che “il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero. Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca Cola, sai che anche il Presidente beve Coca Cola, Liz Taylor beve Coca Cola, e anche tu puoi berla”. Il prodotto è lo stesso, cambia l’etichetta e il fatto che ci sia il mio nome sopra non aggiunge e non toglie niente alla mia volontà di acquistarlo.
Ma l’idea di un’etichetta personalizzata rende speciale l’occasione di acquisto, il destinatario del prodotto, il pretesto per il consumo dello stesso, “hai visto? L’ho comprata apposta per te”.
Vorrei che l’importanza di metterci il nome non si limitasse alla pubblicità ma che fosse una cosa diffusa. Lo era, prima di internet, dovrebbe esserlo ancora.
In tempi di social network dove è molto facile nascondersi dietro un nickname per sputare sentenze al veleno, vorrei che metterci il nome, con la relativa assunzione di responsabilità, fosse un valore aggiunto.
Il nome è la prima cosa che ci danno quando ancora non abbiamo capito bene come respirare, è la cosa che mettiamo sulle cose di cui andiamo fieri, dai disegni da bambini ai progetti adulti, è la cosa che le multinazionali mettono sui prodotti per farceli sentire più “nostri” e comunicarci di far parte anche della loro grande famiglia.
Vorrei che metterci il nome fosse la prassi anche per quelle interazioni che non implicano il faccia a faccia. Mettiamoci il nome. È una bella, elementare, primordiale, forma di onestà.