Supperclub: indovina chi viene a cena?

Metti una sera un invito a cena, e non sai da chi proviene. Niente di impraticabile: il fenomeno delle cene segrete, esiste già da anni ed è molto presente soprattutto all’estero, in città come Parigi e Londra. Un po’ meno facile è venirne a conoscenza per via degli inviti, elargiti con riservatezza quasi massonica. La hidden kitchen (cucina nascosta) infatti, non è altro che una cena fuori casa, con la differenza che invece di essere consumata in un comune ristorante visibile su strada, viene organizzata in appartamenti o locali privati e prevede sempre un numero limitato di commensali, che possono accomodarsi allo stesso o a diversi tavoli, ma che comunque restano all’interno di una stessa camera. L’intento primario dei supperclub è difatti quello di condividere il piacere del gusto, unito a quello della socializzazione, con persone che prima di quella cena erano sconosciute.

Qualcuno li ha ribattezzati col nome di “ristoranti illegali”, proprio perché per organizzarli non serve alcuna licenza di igiene alimentare nè un diploma culinario, ma basta avere a disposizione creatività ai fornelli, un minimo di organizzazione e di disponibilità logistica. Negli Stati Uniti più che una cena offerta da un ignoto padrone di casa, si tratta di incontri di assaporamento dove tutti gli invitati possono avere parte attiva, non solo mangiando, ma anche cucinando: si tratta di uno scambio interpersonale di ricette, metodi di cottura, abitudini alimentari, e delle diverse possibilità di dare ai piatti differenti sfumature aromatiche. Si tratta di condivisione con un estraneo di una delle attività più intime dell’essere umano: nutrirsi.

Il menu cambia da cena a cena, e altro vantaggio in tempo di austerity, che sta facendo la fortuna di questa cucina itinerante è il costo ridotto. Non c’è uno scontrino da pagare a fine pasto, ma l’offerta è a piacere del cliente che può, a seconda dei casi, decidere quanto voler spendere al momento della prenotazione, o lasciare una cifra indicativa di quanto secondo lui è valsa, in termini economici e di merito, la degustazione. Forse solo per gli chef sicuri di sè, quest’ultima. Gli inviti e il recruiting degli ospiti si sviluppa ovviamente a mezzo web, e il sito italiano più famoso della categoria “Gnammo” è organizzato per cooker, gli organizzatori, e per gnammer, gli ospitati appassionati di avventure di sapori.

Alcuni supperclub però impongono delle regole: bisogna essere ospiti per la prima volta, o accompagnare qualcuno che lo sia, in maniera da allargare la cerchia dei clienti attraverso il passaparola. Il vino quasi sempre è necessario portarselo da casa propria, e in generale per l’impiattamento ci si serve da sè. Questo per evitare ulteriori costi aggiuntivi del servizio.

C’è da dire che questi eventi, oggi molto alla moda, ma un tempo nati per gravi necessità economiche nelle povere vie dell’America latina, a Cuba, dove le famiglie non agiate organizzavano mini bed&breakfast, pranzi e cene per viandanti e turisti, pur di arrotondare le entrate di denaro dalle quali trarre sostentamento, non sono tipiche della cultura italiana, soprattutto quella della buona tavola, che si percepisce come estremamente intima e da condividere solo tra parenti e amici. Forse non è un caso che un noto motto popolare reciti “mangiare nello stesso piatto e bere dallo stesso bicchiere” per sottolineare la grande complicità esistente tra due individui, e la capitale del Bel Paese si attesta tra le capitali europee che meno si adattano a questa tipologia di interscambio. Come dire, Roma città aperta sì, ma con le porte di casa propria sempre ben chiuse.

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