Ritmo e black humour: la Malavita di Luc Besson convince e diverte

Dopo il biografico ed intimista “The Lady” e la saga animata di “Arthur”, che lo ha impegnato per metà dello scorso decennio, l’ex enfant terrible Luc Besson torna in campo con “The Family”, arrivato da noi come “Cose nostre – Malavita”. Riguardo al solito vezzo italico del tradurre titoli in maniera “fantasiosa”, qui prendiamocela solo con la prima parte: perché Malavita è in effetti il titolo del romanzo scritto nel 2004 dall’italo-francese Tonino Benacquista, da cui è tratta appunto la pellicola di Besson.

The Family racconta del boss italo-americano Giovanni Manzoni (Robert De Niro), che dopo essere diventato collaboratore di giustizia e aver mandato in galera metà della propria famiglia mafiosa, viene assegnato ad un programma protezione testimoni, che gli impone di cambiare vita. Giovanni Manzoni diventa dunque Fred Blake e viene trasferito insieme alla moglie ( Michelle Pfeiffer) e i due figli liceali (Dianne Agron e John D’Leo) in una cittadina della Normandia. Cominciare una nuova vita però, quando le vecchie abitudini sono dure a morire, non sarà affatto facile. Soprattutto quando vecchi “amici” scopriranno la tana in cui si nascondono Giovanni/Fred e famiglia.

Raccontato così, The Family suona come l’ennesimo gangster-movie che punta tutto sulla redenzione, sul passato che ritorna e la mafia che non perdona. In realtà, già dai primissimi minuti, si riconoscono elementi che lo fanno somigliare più a un’opera come “Kick-Ass”, seppur con una minore componente slapstick: una storia criminale nettamente smorzata dall’ironia e una satira (più che parodia) del gangster-movie. Numerose infatti le citazioni relative a capisaldi del genere, su tutti “Quei bravi ragazzi”. Così tanti i richiami al film di Scorsese, che Malavita sembra a tratti un suo spin-off: a partire dalla nuova vita del mafioso pentito (così si concludeva l’epopea criminale di Henry Hill/Ray Liotta) fino al motivo di Tony Bennett (“Rags to riches”) estratto dalla colonna sonora di “Goodfellas”, passando per il barbecue sognato da Manzoni, praticamente un calco di quello che vediamo all’inizio di “Quei bravi ragazzi”.

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Non solo gangster-movie però. Il pregio fondamentale di Malavita è proprio la capacità di proporre una miscela di generi, priva di originalità ma espressa con agilità e audacia: un po’ sullo stile de I Mercenari, qui c’è un mix fra azione e ironia, situazione comica e drammatica. Con un’aggiunta di humour nero e sprazzi di teen-comedy (seguendo le vicende dei figli). Forte di una sceneggiatura dinamica e mai banale poi, The Family amplifica volontariamente gli stereotipi, rendendoli funzionali allo sviluppo della vicenda: gli italiani sono tutti gangster vendicativi, gli americani aggressivi e paranoici, i francesi arroganti. Nessuno si salva.

In quanto al cast all-star (che vanta anche la presenza di Tommy Lee Jones, oltre che della già citata Pfeiffer) l’interprete che coglie maggiormente la nostra curiosità è prevedibilmente De Niro. Giunto alla soglia dei settant’anni, Bob sa di non poter più essere il Maradona di Hollywood e, divertendosi, si reinventa: e dopo aver sfiorato l’Oscar da non protagonista per Il lato positivo, evita di ripetere l’auto-scimmiottamento di “Terapia e Pallottole” ma si propone nella nuova veste di anti-eroe. Il suo Fred/Manzoni, con la barba alla Robinson Crusoe, è cattivo e pragmatico ma al tempo stesso fragile e fatalista. Ed è ancora un piacere assistere ai dialoghi fra lui e Lee Jones.

Se dal punto di vista tecnico e dello svolgimento, Malavita se la cava egregiamente, lo stesso non può dirsi per il finale: un pò tirato per le lunghe, forse enfatizzato, sicuramente poco coerente con l’approccio canzonatorio dell’opera. Ma è un difetto che gli perdoniamo, perché ci siamo divertiti. E da uno come Besson, francamente, non ce lo aspettavamo.

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