“Chiudete i manicomi giudiziari”, torna in viaggio Marco Cavallo

Stop agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). E’ questo il messaggio del cavallo azzurro di cartapesta (“Marco Cavallo”) sta portando in giro per l’Italia. Al contempo, i centri di salute mentale siano aperti ventiquattro ore al giorno e che non si istituiscano “miniOpg”, ovvero manicomi regionali più piccoli e più curati, ma sempre manicomi.

L’enorme cavallo azzurro simbolo della rivoluzione di Franco Basaglia che portò, con la legge 180/1978 alla chiusura dei manicomi, è in viaggio in tutta Italia per richiamare l’attenzione su questo tema. Infatti, non è solo il sovraffollamento carcerario il problema. La relazione della commissione parlamentare per l’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, ha avuto il merito di aver acceso i riflettori su una vicenda che rischiava di essere sepolta come le persone internate.

Quello che sono stati i manicomi ormai lo sappiamo tutti. Quello che non tutti sanno, invece, è la storia avventurosa e affascinante di questo gigantesco cavallo azzurro, Marco Cavallo, appunto. Tra il gennaio e il febbraio del millenovecentosettantatrè, nacque a Trieste, nell’ambito dei grandi cambiamenti impostati da Franco Basaglia per l’apertura e la distruzione di quelli che erano veri e proprio lagher, un laboratorio condotto da Giuliano Scabia, con la collaborazione di varie persone. Nel laboratorio P del reparto abbandonato, medici, infermieri, ricoverati, tutti insomma, costruirono un gigante di cartapesta che ben presto diventò il simbolo dell’apertura del manicomio. A questo cavallo fu anche dato un nome. Si decise di chiamarlo Marco Cavallo.

Dagli ambienti (e dalla vita) grigia e triste di quello che era il manicomio prima, si passò a vivere un’esperienza di gioco dove tutto era divertente e colorato. “La costruzione di Marco Cavallo rappresenta) un momento che segnò un nuovo inizio; un progetto di vita che non aveva niente in comune con l’odiata quotidianità del manicomio, ma che rappresentava piuttosto un legame tra individui in una nuova dimensione. Quando il cavallo azzurro lasciò il ghetto, centinaia di ricoverati lo seguirono. La testimonianza della povertà e della miseria dell’ospedale invase le strade della città portando con sé la speranza di poter stare insieme agli altri in un aperto scambio sociale, in rapporti liberi tra le persone”. Scrive Basaglia nella prefazione all’edizione tedesca di un libro dal titolo “Marco cavallo (da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura)” a cura di Giuliano Scabia.

La pancia del cavallo venne riempita prima con tutti i desideri dei ricoverati. Poi, da quando il cavallo esce e girovaga per il mondo, tutti quelli che lo incontrano hanno la possibilità di riempirlo anche con i proprio desideri e speranze.

Riassumere brevemente tutti i passaggi di quella storia sarebbe impossibile, ma ci sono degli elementi su cui forse varrebbe la pena soffermarsi. Ossia i mezzi e le situazioni comunicative attuate durante quella esperienza. I laboratori in primis, in cui ognuno poteva entrare e inventare qualcosa e una sorta di canovacci, schemi liberi che permettevano di essere riempiti con quello che ognuno voleva. C’era chi cantava delle storie, chi dipingeva, chi improvvisava una recita… Ma quello che, soprattutto, dovremmo tutti recuperare, e di cui tutti abbiamo bisogno, è la leggerezza e la capacità di giocare. Forse, il messaggio finale di Marco Cavallo è proprio questo: ricordarci che i matti siamo noi, che sembra abbiamo smarrito questa capacità di giocare.

Marco Cavallo è quello che Marx definirebbe “il sogno di una cosa migliore”.

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