Vivere in Italia? “Impossibile. Vantaggi solo per i politici”

L’Italia è un posto perfetto per le vacanze, per viverci e lavorare meglio espatriare. A meno che non si sia politici o sindacalisti o si lavori nell’alta finanza. Giovani, precari, disoccupati e laureati hanno ben poco da poter ottenere nel Belpaese. La nostra penisola infatti, con le sue numerose bellezze artistiche, l’ottimo cibo e il divertimento, è il posto ideale per trascorrere il tempo di una vacanza. Ma guai a pensare di voler avviare qui attività produttive.

È quanto emerge dall’indagine “A chi conviene l’Italia?“, elaborata dal Club dell’Economia in collaborazione con il Censis e presentata all’Abi, in occasione del Premio Ezio Tarantelli per la migliore idea dell’anno 2012 in economia e finanza. Dalle risposte fornite dagli italiani viene fuori tutto lo sconforto e il pessimismo su un miglioramento delle condizioni generali dell’Italia.

Oltre allo scetticismo su una reale possibilità di uscire in tempi ragionevoli dalla crisi economica, c’è anche un forte rancore nei confronti di chi, negli ultimi anni se non decenni, ha approfittato della gestione del potere tutelando solo i propri interessi e riducendo sul lastrico milioni di cittadini e di famiglie (ma di questo forse la responsabilità è in parte anche dei cittadini stessi che si sono disinteressati di come veniva gestita la “cosa pubblica”…).

Quello in cui si ha ancora fiducia sono nelle eccellenze strutturali del Paese: il patrimonio culturale, il brand, le reti di solidarietà.

Come riportato su Repubblica, il ministro del Lavoro Enrico Giovannini afferma che “non deve passare il messaggio che nulla cambia, altrimenti anche dall’estero continueranno a guardarci come un Paese dove nulla cambia. Ogni trimestre si fanno mezzo milione di contratti a tempo indeterminato, 1,7 milioni a tempo determinato e 70.000 di apprendistato”. Aggiungendo anche, per rispondere a chi chiede maggiore flessibilità, che l’Italia offre in questo momento una protezione molto bassa a chi perde il lavoro, e quindi, semmai, “il sistema va cambiato nel suo complesso”. Quindi propone tre diverse ricette per rafforzare la fiducia e la coesione sociale nel Paese: maggiori investimenti sui giovani(non solo pubblici, ma anche da parte delle imprese), un impegno personale dei manager per abbattere il peso della burocrazia (“le norme non bastano”) e un sostegno concreto, (“non sto parlando di una social card”) per i cinque milioni di poveri “assoluti” che vivono in Italia, misure per uscire dalla marginalità (sanità, scuola, inserimento lavorativo). Un progetto “per non lasciare nessuno indietro”, che sarebbe anche un contributo formidabile per riportare la fiducia nel Paese e uscire dalla crisi.

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