Hashtag macht frei, o invece no?

Parole ormai acquisite nel linguaggio comune di chi, al passo con i tempi, fa dei social il proprio pane quotidiano, “hashtag” e “selfie” sono state rispettivamente titolate come parole dell’anno 2012 e 2013.

L’una veicolo dell’altra, riflettono a pieno le manie del momento: l'”hashtag”, la moda nata su Twitter che prevede l’inserimento di un cancelletto (hash) dinanzi a una parola chiave, allo scopo di crearne un’etichetta (tag) e facilitarne così la ricerca, è sbarcato su tutte le piattaforme, divenendo in particolare simbolo di Instagram, un contenitore di istantanee raggiungibili esclusivamente attraverso la ricerca per etichette; “selfie“, il termine che indica gli autoscatti condivisi sui social e che per mezzo hashtag puntano quotidianamente al boom di “mi piace”.

Cosa succede però quando hashtag e selfie diventano uno strumento cieco di condivisione e insensibile al contesto?
Si assisterà ad una sfilata di neologismi e non di pessimo gusto come #instacaust #holocaust #ebrei #memories e chi più di aberrante ne ha più ne metta. Questo è successo nei campi di Auschwitz e Buchenwald, per il Memoriale della Shoah di Berlino: innumerevoli turisti, giovani per lo più, hanno lasciato troppo spazio alla creatività e ben poco al buon senso, ritraendosi o facendosi ritrarre in strambe pose accompagnate da sorrisi a trentadue denti.

Episodi che, dall’avvento di questa mania, già imperversavano, con lo sfondo delle tragedie più note, come quella del Ground Zero, dell’esondazione della diga del Vajount o della stessa Costa Concordia in Italia. Basta fare una rapida ricerca su Instagram per rabbrividire di fronte ad una tale mancanza di rispetto, riflessione, silenzio.

Non basta una fotocamera o un sorriso a rendere luoghi o momenti infausti, lo sfondo perfetto per la condivisione. Non è il”ci sono stato” che va condiviso, ma la memoria e la tristezza che questi posti evocano. Il”ci sono” è una fortuna, che si può celebrare ogni giorno, in ogni modo, come meglio si crede, non lì, dove centinaia di persone avrebbero voluto oggi pronunciare queste stesse parole.

E noi siamo anche li, dietro lo schermo, liberi di scegliere, di ricordare, di rendere omaggio, di pensare. Soprattutto pensare. Un diritto ed un dovere che non può essere obnubilato dalle mode o dall’astrazione causata dall’era digitale, nel perenne parallelismo tra vita reale e vita apparente. Siamo schiavi dei meccanismi, ma il pensiero è la chiave per liberarcene. I social dovrebbero essere sfruttati come mezzi per gli scopi più personali e disparati, non dovremmo lasciare che dominino la nostra coscienza, se ancora ci resta.

Citando e rivisitando il, purtroppo celebre, motto posto all’ingresso dei campi di concentramento, “Arbeit macht frei” (“Il lavoro rende liberi”), sintesi beffarda delle menzogne celate dell’ideologia più distruttiva di ogni tempo, dunque, ribatto: la cultura rende liberi, la riflessione rende umani.

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