Il caso marò: qualcosa non torna. Rischiano davvero la pena di morte?

Si riapre il caso dei marò italiani prigionieri in India. Un caso che in realtà non si era mai chiuso, ma sul quale si erano inspiegabilmente spente le luci della ribalta. Oltre ad alcune iniziative di stampo patriottico di pochi, l’interesse istituzionale riguardo la vicenda era quasi del tutto scemato.

Ci ha pensato una notizia del “The Hindustan Times” a riaccendere l’attenzione sulla vicenda. Secondo il giornale indiano, la Nia, organo investigativo indiano che si sta occupando del caso, avrebbe consegnato un rapporto al ministero degli interni in cui si chiede di perseguire i due marò in base ad una legge del 2002, la “Sua Act”, che reprime la pirateria marittima con la pena di morte. A questa notizia, Staffan de Mistura, inviato del governo italiano a seguire la vicenda e a portare avanti le trattative diplomatiche, ha reagito dichiarando che “siamo pronti ad ogni evenienza con mosse e contromosse”.

Il governo indiano ha ribadito la sua posizione, già espressa tempo fa dal ministro degli esteri: “secondo una giurisprudenza indiana largamente applicata, questo caso non ricade nella categoria di quelle materie che richiedono l’applicazione della pena di morte. Non bisogna avere alcuna preoccupazione”.

Ieri sono arrivate anche le dichiarazioni del ministro Emma Bonino a tranquillizzare e a ribadire la posizione del governo indiano. Secondo il capo della Farnesina, il rischio di una condanna alla pena di morte per i due marò è già stato smentito ed escluso.

Il caso dei marò, quindi, si tinge di giallo. La polizia indiana rilancia l’ipotesi della pena di morte e nello stesso giorno governo indiano e diplomazia italiana escludono l’ipotesi. Dopo svariati tentativi del governo Monti, che portarono anche alle dimissioni dell’allora ministro degli Esteri, Giulio Terzi di San’Agata, i due fucilieri italiani, Massimiliano La Torre e Salvatore Girone, sono ancora prigionieri in India senza certezze sul loro futuro.

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