Totò Riina, “il capo dei capi” di Cosa Nostra, torna a minacciare il pool di magistrati che indaga sulla trattativa Stato-mafia.
Vittorio Terresi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e soprattutto Antonino Di Matteo sarebbero nel mirino del boss corleonese che, dal carcere di Opera dove è rinchiuso, ha in vari modi fatto sapere quali sarebbero le sue prossime intenzioni.
Un secondino avrebbe sentito Riina urlare “Di Matteo deve morire. E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire, fosse l’ultima cosa che faccio”, mentre parlava con un boss della Sacra Corona Unita dopo aver seguito in video l’ultima udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia, che si svolge a Palermo. E non sarebbe nemmeno la prima volta che si manifesta la loquacità della “belva”, come è chiamato il boss per la sua ferocia sanguinaria.
Ad occuparsi delle minacce ai magistrati della trattativa è ancora la Procura di Caltanissetta.
Il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, ha escluso un trasferimento di Di Matteo e della sua famiglia in una località segreta. La misura eccezionale è stata finora messa in atto solo nel 1985 per Falcone e Borsellino. Mandati all’Asinara, in un ex carcere, mentre preparavano i documenti del maxiprocesso, ai due giudici fu poi chiesto di pagare le spese per i consumi nel periodo di “soggiorno”.
Già da molto tempo pare che a Palermo tiri la stessa aria del periodo 1992-93, gli anni degli attacchi frontali di Cosa Nostra allo Stato con le stragi di Capaci e via D’Amelio, le bombe a Roma, Milano e Firenze. Tanto che lo stesso Alfano, durate la conferenza stampa dopo la riunione del Comitato per la sicurezza, ha sottolineato come non sia da escludere un ritorno alla strategia stragista della mafia.
Ma Falcone e Borsellino non morirono quando scoppiarono i 500 chili di tritolo sotto l’autostrada o la macchina in via D’Amelio. Morirono perché furono lasciati soli, dai cittadini e dallo Stato. Questo, invece, dovrebbe essere il tempo giusto per evitare altri martiri.