500 giovani per la cultura: cronaca di un bando ministeriale

500 giovani per la cultura è il nome del bando indetto dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo (il Mibact), ufficializzato da Enrico Letta il 22 ottobre con lo scopo di impiegare cinquecento laureati per l’archiviazione e la digitalizzazione del patrimonio culturale italiano.

Abbiamo seguito il percorso del decreto cultura perché la manovra, almeno nei suoi intenti, sembrava potesse finalmente legittimare a livello politico e lavorativo uno dei settori più importanti e meno tutelati nella storia del nostro Paese: la cultura in senso lato, in tutte le sue manifestazioni e legata allo sterminato patrimonio italiano.

Noi, come migliaia di professionisti della cultura siamo però rimasti sconcertati dalla pubblicazione ufficiale del bando che, per i requisiti estremamente selettivi e i compensi talmente bassi da risultare svilenti per chiunque abbia intrapreso un itinerario formativo legato a una qualsiasi branca della cultura, ha suscitato innumerevoli proteste.

I laureati in discipline umanistiche, i lavoratori e gli aspiranti tali, nell’ambito delle attività culturali hanno impiegato tutte le risorse disponibili per esternare la loro protesta e, attraverso una petizione, hanno espresso il loro dissenso per un bando che sottovalutava la loro ragione d’essere.

Il ministro del MiBACT Massimo Bray è stato ospite della trasmissione di Fabio Fazio Che tempo che fa domenica 15 dicembre, che ha ricevuto in massa email e lettere contenenti le richieste per modificare i requisiti d’accesso e i compensi del bando per i cinquecento laureati. Il ministro si è mostrato aperto al dialogo con gli aderenti alla protesta, decidendo di fare suo l’hashtag 500destini creato su Twitter.

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Nella notte tra domenica e lunedì il ministro ha reso note tramite il suo account Twitter le modifiche del bando di concorso, in seguito alle richieste del popolo dei professionisti della cultura, cambiando i requisiti d’accesso e il numero delle ore di lavoro.

Facciamo un passo indietro. A suscitare la protesta sono stati i requisiti di ammissione ritenuti troppo selettivi ed il compenso, giudicato non idoneo al numero delle ore ed alle competenze richieste.
Per quanto riguarda i requisiti il primo criterio ad essere contestato riguarda le tipologie delle lauree: sono stati presi in considerazione diversi titoli di studio conseguiti in ambito umanistico tralasciandone però alcuni, in questo mare magnum di indirizzi e lauree “spezzettate” diversi titoli sono molto simili tra loro per percorsi formativi, ma se uno di questi viene incluso nel bando capita che il suo gemello non lo sia con la conseguenza che chi ha studiato, allo stesso modo di altri colleghi, rischia di essere escluso per motivi legati alla casualità più che all’attinenza del proprio percorso con il tipo di lavoro da svolgere.

Il secondo punto del bando originale riguardava il voto di laureaa che prevede un minimo di 110/110 per iscriversi al bando. Siamo tutti d’accordo (almeno a parole) con il principio della meritocrazia, e siamo consapevoli che un 95 non è uguale ad un 110 cum laude, ma porre come requisito indispensabile, quindo non meramente preferenziale, la votazione massima sembra celare un uso improprio e strumentalizzato della meritocrazia, trasformandolo in un semplice strumento per “scremare” le innumerevoli adesioni che altrimenti sarebbero pervenute, e quindi fare meno lavoro durante la selezione.

Un altro punto, tra quelli più oscuri, concerne la necessità di possedere una certificazione di lingua inglese di un livello molto elevato, il B2, che sembra non avere piena attinenza con il tipo di lavoro che il candidato andrà a svolgere. Ciò che ha indignato maggiormente è stato il fatto che tale requisito non permette di valutare il livello di inglese del candidato con altri mezzi, come un esame o una laurea in lingue, esperienze all’estero o altri tipi di certificazione, ma prescinde una certificazione che per essere ottenuta comporta una spesa notevole che non tutti, soprattutto in questi famelici tempi di crisi, possono permettersi, e che quindi implica un altro requisito: l’essere benestanti.

L’ultimo requisito è quello che riguarda l’età: possono partecipare al bando solo coloro che hanno meno di 35 anni.
Infine, ciò che è stato al centro della protesta dei professionisti della cultura è la questione legata al compenso: 5000 euro lorde annuali per un totale di 1.200 ore, ovvero circa 417 euro mensili, che altro non sono che meno di 3,50 euro l’ora. Una cifra che fa discutere e che, anche in questo caso, pone come requisito essenziale una copertura economica che permetta di vivere esclusivamente con tale cifra, in quanto il bando, nella sua forma originaria, prevedeva un impegno di 30-35 settimanali, ovvero un full-time, senza quindi la possibilità di svolgere un altro lavoro per ampliare i guadagni mensili. La retribuzione era dunque consona più ad un tirocinio che ad un lavoro vero e proprio, come ha dichiarato Bray, smentendo così le dichiarazioni di Letta che all’inizio aveva parlato di assunzioni.

La protesta è riuscita a raggiungere le orecchie – o meglio gli occhi – del ministro Bray che ha tempestivamente cambiato i punti caldi del bando, abbassando il voto minimo per accedere a 100/110, eliminando la certificazione di lingua inglese e dimezzando le ore lavorative, che ora sono divenute 600, lasciando invariato il compenso.

Persistono ancora polemiche sui diplomi di laurea e sul limite di età, non sappiamo quindi se la protesta continuerà ad esprimersi, ma è certo che Bray ha dimostrato di essere aperto al dialogo. Al di là della persistenza delle proteste e della diffidenza verso un bando iniziale che si sarebbe potuto evitare c’è da notare che la risposta del Ministero è comunque una goccia di speranza nel mare di disillusione e false promesse cui si trovano a navigare i laureati in discipline umanistiche, sempre più accompagnati da altri professionisti.

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