Cina e il dilemma cambio-esportazioni-inflazione

La Cina è attraversata da un grosso nervosismo, che si è evinto in queste settimane di dibattito sul possibile default tecnico degli USA, nonchè in seguito al declassamento dei Treasuries, che hanno perso la storica tripla A. Il fatto è che non solo i cinesi possiedono qualcosa come 1160 miliardi di dollari in bond americani, ossia l’8% del debito complessivo degli USA, ma anche le loro immense riserve sono denominate in dollari e ammontano alla cifra di 3200 miliardi di dollari.

Se il dollaro si dovesse deprezzare, la banca centrale di Pechino si troverebbe nell’immediato a fro0nteggiare perdite potenziali anche immense. E, tuttavia, c’è un problema che non lascia dormire sonni tranquilli in Cina: l’inflazione.

Ormai viaggia intorno al 6% annuo, un tasso insostenibile, anche perchè rischia di causare malcontenti sociali, che Pechino teme più di ogni altra cosa. Ma l’aumento dei prezzi è dettato da un afflusso massiccio di valuta, derivante da un tasso di cambio fisso e sottovalutato, che non consente allo yuan di adeguarsi alla realtà del mercato.

Dunque, la rivalutazione dello yuan sarebbe la soluzione più adeguata a risolvere il problema dell’inflazione, ma studi hanno evidenziato che il deprezzamento del dollaro sulla valuta cinese del 20% porterebbe alla perdita in Cina di 20 milioni di posti di lavoro, per via delle minori esportazioni.

E se, quindi, non è ipotizzabile che Pechino rivaluti in un solo colpo lo yuan, il suo apprezzamento graduale potrebbe avere controindicazioni, tali da aggravare e non risolvere il problema dell’inflazione. Infatti, se ci fosse l’attesa per una rivalutazione ulteriore dello yuan, miliardi di dollari verrebbero convertiti in yuan, facendo affluire un enorme quantitativo di capitali speculativi, che aumenterebbero la base monetaria e, quindi, i prezzi stessi.

Eppure, qualcosa la Cina dovrà fare. Il dilemma è scegliere cosa e come.

 

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