Steve Jobs al biografo:”Vorrei credere in una vita ultraterrena, ma temo che alla fine ci sia solo un off switch”

Il biografo di Steve Jobs, Walter Isaacson, in un’intervista esclusiva al Corriere, ci ha regalato alcuni tratti sconosciuti e intimi della persona Steve Jobs. Un uomo ossessionato dalla perfezione, e con uno strano rapporto con l’ultraterreno.

Uno degli argomenti salienti di cui Jobs parlava con Isaacson era il suo rapporto con Dio, con la vita dopo la morte “Con me Steve cominciò a parlare di Dio man mano che prendevamo confidenza e che la malattia riguadagnava terreno. Non era paura, si interrogava: “Voglio credere nella vita ultraterrena” mi diceva, “perché questo fa parte della mia formazione buddista. Tutta la saggezza che hai accumulato, la tua conoscenza non svanirà nel nulla quando tu non ci sarai più”. Poi, però, veniva assalito dal dubbio che alla fine della vita ci sia solo un “off switch”.

Per Jobs le persone non erano mai “grigie”, era tutto o bianco o nero. E anche con Isaacson è stato così.  “Sì, è vero, ho parlato della dicotomia eroe-stronzo: per lui eri una cosa o l’altra, senza nulla nel mezzo. E magari ti faceva passare da una categoria all’altra nell’arco della stessa giornata. Molti amici mi avevano sconsigliato di imbarcarmi in questa avventura: avrai davanti un uomo impossibile, mi dicevano. Cortese e poi, d’un tratto, furioso. Beh, è successo una sola volta: quando gli portai un progetto di copertina del libro sul quale stava lavorando l’editore. Con un logo della Apple e il titolo “iSteve”. Lui si imbestialì, disse che faceva schifo, si mise a urlare che non avrebbe più collaborato alla biografia se non avesse avuto voce in capitolo sulla veste grafica del libro. Non fu difficile accontentarlo, visto il suo grande talento per il design.”

Con lui il rapporto è stato diverso da quello che ci si aspetta da un rapporto tra un biografo e l’uomo di cui si scrive la biografia. Steve Jobs si è aperto nel profondo, raccontandogli stralci della sua vita privata che gli hanno fatto credere di conoscere tutto dell’ex iCEO.“Mi piaceva Steve Jobs. Con tutte le sue asperità, le ossessioni, i demoni che lo divoravano, mi piaceva. E questo è un problema. Lei lo sa: un giornalista dovrebbe sempre mantenere un certo distacco. A maggior ragione un biografo. Ma con lui è stato diverso. Intanto per la incredibile ricchezza della sua storia. Che lui spiegava con un semplice “mi piace vivere all’intersezione tra umanità e tecnologia”. E poi c’era l’aspetto carismatico, ipnotizzante, della sua personalità, l’aura che si diffondeva intorno a lui. Infine, mi ha disarmato con la sua apertura. Vede, un biografo alla fine del suo lavoro arriva comunque a conoscere solo uno spicchio — diciamo il 2 per cento — del personaggio che descrive. A me è successo con Benjamin Franklin e Albert Einstein, ma anche con Henry Kissinger che, pure, ho frequentato assiduamente. Con Steve è stato diverso: non aveva mai parlato del suo privato. Quando ha deciso di farlo, ha demolito tutti i muri. Ha voluto parlare per ore e ore di tutto: i suoi sentimenti, le sofferenze, le sue storie romantiche. Con lucidità e spesso in modo commovente. Alla fine ho avuto la sensazione di sapere tutto di lui, della sua natura intima. Di conoscerlo come me stesso. Non mi era mai capitato. Ed è, in qualche modo, sconvolgente”

Sul rapporto di Steve con la sua famiglia si è speculato molto, troppo. Eppure era un padre che ogni sera tornava a casa per cena. “Per essere il capo di una grande azienda, era un padre molto presente: non andava mai a “party” e ricevimenti, non accettava premi. Tutte le sere a casa, a cenare in cucina con la famiglia. Ma era assorbito dal suo lavoro: anche a tavola spesso si estraniava, seguiva i suoi pensieri. Amava i figli ma sentiva di non riuscire a comunicare bene con loro”

Negli ultimi mesi della malattia Steve Jobs, era comunque certo di avere ancora un anno, a dispetto di tutti i medici e dei responsi delle analisi. “Ritorna la sua visione binaria del mondo. Steve era un uomo fondamentalmente razionale, ma il suo approccio analitico non era assoluto. A un certo punto lasciava spazio al “magical thinking”: il pensiero magico sempre rimasto nel fondo della sua anima fin dagli anni delle esperienze giovanili in India, dell’immersione nella spiritualità orientale, dell’adesione al buddismo. Viene da qui anche l’idea dell’inviolabilità del corpo. Alla quale ha rinunciato solo dopo molti mesi di malattia. Sapeva di aver sbagliato, ma era fatto così: voleva l’eccellenza delle terapie tradizionali — i migliori medici e chirurghi d’America — ma al tempo stesso continuava a cercare alternative. È stato così fino alla fine. L’ultima volta che ci siamo incontrati, quattro settimane prima della sua morte, sapeva che il suo destino era ormai segnato. Ma, contro le previsioni dei medici, era convinto di poter vivere ancora un anno. Mi hanno raccontato che il giorno prima della fine era ancora al lavoro sui progetti della Apple e convinto che avrebbe avuto il tempo di leggere la sua biografia. Una fiducia che ti spieghi solo col suo “magical thinking”

Steve era ossessionato dal perfezionismo, e proprio per questo era molto esigente con i suoi dipendenti, molto duro. “Ne abbiamo parlato spesso. Dipendeva dalla sua ossessione per la perfezione. Era insofferente non solo della mediocrità, ma anche di tutto ciò che non raggiungeva l’eccellenza. Mi diceva: “È vero, potrei essere più dolce e di certo esiste un modo più delicato per gestire i rapporti coi miei dipendenti. Ma non sarei me stesso. Se una cosa non mi va, io lo dico in faccia. Capisco che è dura, ma alla fine di questo processo solo i migliori giocatori rimangono in squadra. E quelli che restano sono intensamente leali”

 

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