Basilicata, “terra di nessuno”. Anche qui interrati rifiuti tossici

Troppi rifiuti per troppo poche imprese: così partirono i primi sospetti sullo smaltimento illecito di rifiuti in Basilicata.
In realtà, è dal ’97 che si indaga sulle attività criminose della ‘ndrangheta sul territorio lucano, quando il dubbio balenò al sostituto Procuratore Franca Macchia. La Basilicata, secondo quanto sottolineato da Macchia, contava “ben due discariche di rifiuti tossico-nocivi poste a distanza ravvicinata e luogo di destinazione finale di rifiuti di origine prevalentemente industriale“.

Nello specifico, le industrie da cui provenivano tali rifiuti si trovavano in Lombardia. Ecco dunque venire alla luce una fitta rete di transazioni illecite tra chi aveva interesse a smaltirli nella maniera più economica possibile e chi sapeva di poterlo fare, sfruttando una terra considerata un “terminale ideale” per rifiuti tossici.
Al centro dell’inchiesta finirono le imprese per lo smaltimento dei rifiuti Ecobas e Bng, che lavora anche con società rilevanti a livello nazionale come Eni-Agip, S.p.i spa, Enterprise oil italiana spa, Fina, Lasmo Italia spa. Insieme a queste, furono coinvolte anche La Nuova Smil srl e la Ecosud srl specializzate nel settore ecologico.

Tre anni dopo numerose discariche abusive erano state sequestrate, come dichiarato dalla Commissione territoriale sulla Basilicata. All’interno del sito di Ferrandina venne ritrovato persino dell’amianto. “Esistono però presenze e attività di stampo mafioso nel ciclo dei rifiuti che non consentono più di parlare di isole felici“, riportò la Commissione.

Facile deduzione, considerando che delle seicentomila tonnellate di rifiuti pericolosi ne erano scomparse nel nulla almeno due terzi e che nel frattempo erano state scoperte numerose discariche abusive. Di conseguenza, ci si chiese fino a che punto l’amministrazione pubblica potesse non essersi accorta di nulla: “Desta, inoltre, preoccupazione il fatto che molte delle discariche poste sotto sequestro nel corso del ’97 erano in mano pubblica, come nel caso di Montalbano Ionico, di alcuni comuni della provincia di Potenza e di Cirigliano, poiché denota la superficialità e la disattenzione, quando non fenomeni di collusione, da parte degli apparati amministrativi preposti al controllo del ciclo dei rifiuti“.

Il problema è che la Basilicata non può essere considerata come una vuota pattumiera a maggior ragione perché non è affatto vuota: è qui infatti il bacino petrolifero su terraferma più importante d’Europa. Al contrario, la criminalità organizzata non deve essersi soffermata a riflettere sulle conseguenze dello smaltimento di rifiuti tossici nei pressi di pozzi petroliferi, ormai irrimediabilmente inquinati da metalli pesanti ed idrocarburi.

Purtroppo, c’è di più: tra gli anni ’80 e ’90 la mafia ha considerato la Basilicata come terra di nessuno sul cui suolo far sparire centinaia di bidoni contenenti rifiuti tossici, ammassati all’interno di anonimi capannoni.
Ma dove erano destinati a finire?

Lo spiega, nel 2003, il pentito Francesco Fonti al procuratore Francesco Neri. Quel che ne viene fuori è una rete di scambi intercontinentali dal Centro Enea di Rotondella all’Africa -quando i rifiuti non venivano direttamente interrati in Basilicata.
Il Centro Enea, gestito da Tommaso Candelieri, si trovò nella difficile condizione di dover smaltire seicento bidoni di rifiuti tossici e radioattivi, provenienti anche da centrali nucleari francesi. A questo punto intervenne Domenico Musitano, “u fascista“, mafioso di Platì (Rc), che si consultò con alcune cosche calabresi per decidere sul luogo di smaltimento.

Bocciato l’Aspromonte, dove i boss erano soliti recarsi in ferie, si pensò alla Basilicata e all’Africa. Quando Musitano venne ucciso, Foti prese il suo posto nella trattativa: era il 1987.
Prima di morire, tuttavia, Musitano aveva eletto a capo della ‘ndrangheta locale Renato Martorano, passandogli il testimone nella gestione dei rifiuti pericolosi.

Un terreno di lauti guadagni, per quanto sporchi: troppi perché Martorano non si scontrasse con nessuno. Ed infatti anche il boss Gino Cosentino, come racconterà poi al Procuratore antimafia Francesco Basentini, cominciò ad annusare l’aria insieme ad un altro affiliato, Leonardi Stolfi: “Perché – disse Stolfi a Cosentino – dobbiamo lasciare tutto in mano a Renato? Là frutta un sacco di soldi“.

A tutt’oggi, il pentito Fonti continua a non voler rivelare agli inquirenti né il luogo esatto dei seppellimenti né i nomi in essi coinvolti, asserendo di non godere di un’adeguata protezione.
Eppure, un mese dopo le sue dichiarazioni, al sindaco di Ferrandina, al Presidente della provincia e al Presidente della Usl n. 6 di Matera arrivò un esposto dal Coordinatore regionale di Legambiente Domenico Lence nel quale si denunciava “una certa frequenza di aborti, malformazioni e morie negli allevamenti della zona“, dovuti alle acque del torrente Vella di cui aveva parlato Fonti. Gli stessi effetti furono denunciati dagli abitanti e dagli agricoltori nei pressi del Centro Enea di Rotondella.

Il Procuratore Nicola Maria Pace ritornò dunque alle indagini della collega Franca Macchia, la quale aveva parlato di 14 container di rifiuti ospedalieri radioattivi, una serie di fusti da duecento litri l’uno pieni di testine di americio, seimila fusti di terreno decorticato dal suolo, un magazzino con uranio e torio e, infine, impianti di stoccaggio rifiuti con liquidi ad alta attività e a maggior rischio. Si parlava anche di plutonio, la cui contabilità fortunatamente risultò non veritiera.

Risalendo alle imprese responsabili di tale spargimento di veleni, Pace arrivò alla Procura di Reggio Calabria. Qui, scoprì che i registri contabili in cui sarebbero dovuti essere registrati i trasporti di rifiuti pericolosi erano spariti.
Ai cittadini, dunque, resta solo tanta rabbia: nel vedere casa propria trasformata in una discarica velenosa e, soprattutto, nel sapere che l’intera vicenda viene fatta passare per quanto possibile sotto silenzio.

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