Turchia all’americana, il disastro della crescita drogata

Se siamo abituati a pensare alla Cina, quando si parla di economie emergenti e di crescita impetuosa del pil, non dovremmo dimenticare che a qualche centinaio di chilometri dalle nostre coste un altro grosso stato, che conta circa 80 milioni di abitanti, sta vivendo una fase di boom economico, che si è palesato, per parlare dello scorso anno, in una crescita del pil dell’8,9%, quasi nove volte quella registrata in Italia e circa 5 volte in più della media europea; stiamo parlando della Turchia.

Eppure, dalle parti di Ankara non è proprio tutto rose e fiori, se è vero che il Paese sembra più una copia degli USA di Obama, con una politica monetaria accomodante e una banca centrale, che ha addirittura abbassato i tassi di riferimento in queste settemane, in contro-tendenza, rispetto ai movimenti planetari, e a quanto ha fatto lo scorso mese la nostra BCE. Motivo? Sostenere la crescita dell’economia, anche a costo di un aumento de tasso di inflazione, che già quest’anno dovrebbe passare dal 5,9% del 2010 al 6,9%. Livello che dovrebbero allarmare qualsiasi autorità di politica monetaria e ogni “policy maker”, ma non il governo di Ankara, che pensa più all’obiettivo di brevissimo termine delle elezioni politiche.

E se l’inflazione corre, le borse cedono, con i mercati che scommettono su un rialzo dei tassi, considerando insostenibile la politica espansiva del premier Erdogan e delle autorità bancarie centrali di Ankara. Anche perchè i bassi tassi di interesse hanno già determinato uno scarso afflusso di capitali nel Paese, con l’allargarsi della voragine del saldo delle partite correnti, neagtivo per quasi sette punti del pil.

Forse, dopo le elezioni, ci sarà spazio per una politica monetaria più appropriata.

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