La pelle che abito – Recensione

Guardando “La pelle che abito“, salta subito all’occhio la somiglianza impressionante con numerosi canoni estetici e narrativi del mito del dott. Frankenstein, uno scienziato pazzo, come ben sappiamo, che riesce a generare dalla materia inanimata, una parvenza di essere umano immortale ed esageratamente forte. Ma il romanzo di Mary Shelley non è l’unica opera alla quale il film s’ispira, dal momento che vi sono rimandi anche al genio creativo di Alfred Hitchcock, con una delle sue pellicole cinematografiche più riuscite intitolata “Vertigo” o “La donna che visse due volte“, legata al tema del doppio e all’estremo bisogno di ricreare chi si è tanto amato, e soprattutto al libro “Tarantula” di Thierry Jonquet.

Ultima fatica cupa e claustrofobica dello spagnolo Pedro Almodovar, maestro di un certo tipo di cinema provocatorio e passionale, in cui il fascino della trasformazione, l’identità personale incerta, i solidi rapporti familiari, i ricordi dolorosi, la violenza, la morte, l’amore affrontato in tutte le forme possibili ed immaginabili e la componente sessuale la fanno da padrone. “La pelle che abito” è un melodramma tendente al thriller e all’horror, che attraverso argomenti molto attuali come la chirurgia estetica e gli esperimenti genetici, dà libero sfogo alle pulsioni più istintuali e perverse dell’animo umano, sfociando in vere e proprie ossessioni maniacali al limite dell’assurdo.

La pelle che abito” è la storia di un brillante ricercatore scientifico, specializzato in interventi di abbellimento e ricostruzione dell’epidermide, il dott. Robert Ledgard (Antonio Banderas), che in un attimo vede distrutta tutta la sua vita, a causa di una duplice perdita affettiva: la moglie Gal deceduta in uno spaventoso incidente stradale, e la figlia Norma (Blanca Suàrez) suicidatasi dopo uno stupro. Devastato da un dolore troppo grande da sopportare, decide di lenire almeno in parte la sua sofferenza, sequestrando Vincente (Jan Cornet), l’artefice dell’abuso sessuale, impiegandolo come cavia umana principale, per poi concentrare la sua attenzione su Vera (Elena Anaya), alla quale impianta un tipo di pelle molto resistente, risultato genetico dell’unione tra il derma umano e quello di maiale.

A completare il cast, interviene la figura di Marilia (Marisa Paredes), madre, governante e complice del freddo e folle medico, che ha il compito di vigilare sulla donna che il figlio ha portato nel suo laboratorio/castello, per essere sottoposta all’incredibile ed inquietante esperimento, e convivere con una pelle e un’identità che non gli appartengono. Valutate le convincenti interpretazioni degli attori protagonisti, non rimane che analizzare l’impianto tecnico, reso particolarmente efficace grazie all’interessante fotografia di José Luis Alcaine e all’ottima ed angosciante colonna sonora di Alberto Iglesias, perfettamente consona all’atmosfera drammatica del film. “La pelle che abito“, viaggio allucinante tra passato e presente, delineato da un lungo flashback che ci ricollega al motivo della tortura interiore di Ledgard, è distribuito dalla Warner Bros.

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