Magnifica Presenza, la recensione

Si chiama ‘Magnifica Presenza’ ed uscirà venerdì 16 marzo il nuovo film di Ferzan Ozpetek, una produzione Fandango e Faros Film in collaborazione con Rai Cinema. Scritto dallo stesso Ozpetek assieme a Federica Pontremoli, il film racconta la storia di Pietro Pontechievello (Elio Germano), un aspirante attore che dalla Sicilia si è trasferito a Roma per realizzare il sogno di sfondare nel mondo del cinema. Mentre di giorno si divide tra la girandola di provini, di notte sbarca il lunario facendo cornetti, tutti uguali tra loro. Timido, sensibile, solitario e ossessionato da un amore impossibile, Pietro abbandona la convivenza con la soffocante e confusionaria cugina Maria (Paola Minaccioni) per trasferirsi nella casa che ha appena affittato nel vecchio quartiere di Monteverde. Una casa dove iniziare finalmente una nuova vita, bella, grande e spaziosa ma che custodisce un segreto.

Pietro scopre infatti di non essere da solo. Misteriosi inquilini, donne e uomini truccati e vestiti distintamente nei loro eleganti abiti da sera, appaiono e scompaiono all’improvviso, disturbando e spaventando il giovane. Le inquietanti presenze che solo Pietro può vedere, sono i fantasmi degli attori della compagnia teatrale Apollonio (di cui fanno parte Margherita Buy, Giuseppe Fiorello, Vittoria Puccini, Claudia Potenza, Ambrogio Maestri, Cem Yilmaz, Matteo Savino), sparita nel nulla negli anni ‘40. Gli attori fantasmi chiedono al ragazzo di aiutarli ritrovare Livia Morosini (Anna Proclemer), l’unica della compagnia in grado di svelare il mistero legato alla loro scomparsa. Le ombre che Pietro vede in casa sua sono davvero chi dicono di essere, presenze reali sospese tra passato e presente, o forse non sono altro che una proiezione salvifica della sua immaginazione per compensare il vuoto e la solitudine della sua vita?

Finzione o realtà. Realtà o finzione. In questo rimando continuo tra reale e immaginario, speculare a quello tra passato e presente, si gioca gran parte del film di Ferzan Ozpetek. Un dualismo che richiama inevitabilmente alla mente Pirandello e i suoi ‘Sei personaggi in cerca d’autore’. Come gli attori di Pirandello, anche i fantasmi di Ozpetek, cristallizzati nei loro abiti di scena e prigionieri di un passato tragico che ne ha fermato le vite al 1943, hanno bisogno di qualcuno che li liberi. Questo qualcuno è proprio Pietro, la sola magnifica presenza del titolo, quell’autore senza il quale l’arte della compagnia teatrale resterebbe relegata tra le quattro mura di un salotto. E’ lui che ne ricostruisce la storia, svelandone il dramma sotteso e permettendo ai fantasmi di spezzare le catene che li obbligano a vivere un eterno presente. In cambio, queste presenze gli offrono quello che le persone reali gli negano: affetto, amicizia, solidarietà e una famiglia rassicurante, con cui giocare ad attaccare figurine agli album, a cui affidare i propri sogni e le proprie incertezze, da cui trarre la forza e il coraggio per credere in sé stesso.

Dopo il successo di ‘Mine Vaganti’, Ferzan Ozpetek torna al cinema con un film complesso in cui riesce ancora una volta, grazie alla sua sensibilità e intelligenza, ad offrire un equilibrio pacato e senza eccessi di leggerezza e dramma, coinvolgendo lo spettatore con quel tocco di paura che rende l’amalgama più avvincente. Ritroviamo poi tutti gli elementi tipici della sua filmografia, a partire da una storia molto corale che brilla per le interpretazioni, ben dirette, di tutti i suoi attori, in cui spiccano l’ingenuo e sognante Elio Germano, e il prezioso cammeo di Anna Proclemer nel ruolo di un’attrice cinica e arrivista. C’è poi il senso di una famiglia che va oltre i legami di sangue, il compenetrarsi tra presente e passato, la rievocazione della storia, la diversità, e quel profondo senso di alienazione dalla realtà che unisce vivi e morti e che genera nostalgia. Non per il passato ormai andato, ma per il presente che non si riesce a vivere come si vorrebbe. Pietro perché impasta i cornetti e non ha il coraggio di diventare attore, i fantasmi perché hanno paura di varcare la porta del loro rifugio e tornare per sempre a quel Teatro (il Valle) dove hanno recitato in vita.

In questo emozionante elogio della sensibilità umana, e in questo invito a seguire le proprie passioni in un mondo che ci obbliga a indossare la maschera più conveniente, le sole note stonate sono le incompiute fascinazioni amorose del protagonista per il vicino di casa Alessandro Roja, e la scena, visivamente di impatto ma narrativamente inutile di un sotterraneo mondo trans governato dalla badessa Platinette.

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