Jobs: tra storia e intimismo, un’occasione mancata

Poche settimane ancora e il primo biopic sulla figura di Steve Jobs approderà nelle nostre sale: il 17 ottobre arriverà infatti in Italia Jobs, pellicola tanto bistrattata dalla critica quanto snobbata ai botteghini USA, che racconta la parabola di uno dei più grandi innovatori della storia.

Il film, diretto dallo statunitense Joshua Michael Stern (alla sua terza regia) e scritto da Matt Whiteley, mostra la parte centrale della vita del papà della Apple (interpretato da Ashton Kutcher), dal periodo dell’università (poi abbandonata) negli anni ’70 fino alla presentazione del primo iPod, nel 2001, passando per il rapporto controverso con la compagna Laurene e gli amici-colleghi (Steve Wozniak e Mike Markkula su tutti). Al contempo, i sogni, le manie e le contraddizioni di un uomo dall’ego enorme e dal genio smisurato.

Analizzato nella sua natura, Jobs dà innanzitutto la sensazione di eludere una scelta: mettere in risalto l’asettica figura del guru, facendo parlare i freddi numeri e concentrandosi sul percorso formativo e lavorativo di Jobs, oppure mostrare prima di tutto l’uomo, con le sue paure, le sue ossessioni, la sua solitudine? L’opera di Stern cerca di realizzare una sintesi tra questi due approcci, tentando di mettere un pò di tutto nel calderone, ottenendo però di fatto un effetto di indeterminatezza che pervade l’intera pellicola. Artigianalmente di discreta fattura (lato fotografia-scenografia) e supportato da un cast solido e ben messo in campo (con due ottimi mestieranti come Matthew Modine e Dermot Mulroney), Jobs ha invece uno dei suoi maggiori punti deboli nella sceneggiatura, che si mostra alle volte poco incisiva, altre frettolosa: ad esempio, Jobs nel film perde e riconquista il lavoro in maniera eccessivamente naturale, come si trattasse di alzarsi la mattina o addormentarsi la sera. Inoltre, nelle scene in cui si voleva valorizzare il ruolo sociale della sua impresa, una retorica didascalica la fa da padrone.

Riguardo al protagonista invece, fuggiamo da ogni pregiudizio: Kutcher non sarà Jack Nicholson ma il suo lavoro lo sa fare e la sua interpretazione nei panni del guru di Cupertino rappresenta uno dei pochi aspetti dell’opera a salvarsi. Certo, dell’incedere più andreottiano che simil-Jobs ne avremmo anche fatto a meno ma l’ex toy boy (per citare il titolo di un film da lui interpretato, non i suoi trascorsi con la Moore) fa comunque bella figura, calandosi nella parte con la giusta intensità.

Cerchiamo adesso di capire, analizzando tre possibili concause, cosa ha potuto provocare reazioni a tal punto negative nei confronti di questo biopic, riferendoci ai feedback perlopiù scarsi ricevuti in patria dalla pellicola di Stern. Innanzitutto, il paragone prematuro e forse un po’ maligno imposto dai media con un altro film sulla figura Steve Jobs, che deve ancora vedere la luce e su cui vige il massimo riserbo: al momento, è dato solo sapere che la sceneggiatura sarà affidata ad Aaron Sorkin (non uno qualunque, premio Oscar per The Social network e ideatore di The newsroom) e che Steve Wozniak prenderà parte alla realizzazione come consulente. Un confronto che molti credono si rivelerà impari.

In secondo luogo, le dichiarazioni dello stesso Wozniak, risentito (in parte a ragione) del ruolo marginale assegnato alla sua figura nello sviluppo di Apple nella pellicola: il cofondatore dell’azienda, qui in effetti tratteggiato come spalla del divo Jobs, ha rilevato diverse inesattezze, figlie perlopiù di un approccio romanzato e mitizzante in relazione al racconto dei primi anni di carriera del collega-amico. Infine, forse la scelta che ha più pesato nel giudizio, ovvero tagliare l’ultimo pezzo della vita di Jobs, quello in cui la storia lascia spazio al mito: gli ultimi regali all’umanità 2.0 (iPhone ed iPad), la malattia, la fine prematura. Nel film di Stern non c’è spazio per tutto questo.

Insomma, la sensazione è che pur non essendo in senso assoluto un’opera disprezzabile, il Jobs di Stern non riesca prima di tutto a sapersi vendere. E considerando quello che ci ha insegnato l’uomo che gli dà il titolo, non potrebbe esserci difetto peggiore di questo.

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