O l’amore o i sogni

Sareste disposti a rinunciare ai vostri sogni per amore?

Forse adesso, nell’anno 2013, reduce da una discreta fetta di vita, lo farei, se sentissi che la storia che vivo è proprio quella giusta, se sapessi che posso costruire altro, un progetto nuovo, magari inaspettato e realizzato in due.
Ma se me l’avessero chiesto a vent’anni, col cavolo che avrei risposto di sì!
A vent’anni sei pronto a mangiarti il mondo, hai sempre alternative, perché il tempo è la più grande fonte di speranza; hai bisogno di inseguire le tue chimere, di mettere tutto te stesso per realizzare i tuoi desideri.
A vent’anni ci sei solo tu e il tuo futuro, tutto da scrivere.
Non importa dove.

Marina Bellezza, la protagonista dell’omonimo nuovo romanzo di Silvia Avallone (ed. Rizzoli), ha proprio l’età in cui tutto sembra possibile. In più è una ragazza bellissima, di una bellezza assoluta, indescrivibile, con una voce potente e un grande talento.
Il suo sogno è cantare, diventare la numero uno, vincere X- Factor e poi Sanremo e riscattarsi da un’esistenza meschina che non l’ha risparmiata, nonostante il suo aspetto angelico.
Ha voglia di scappare da Valle Cervo, dall’ormai desolata provincia biellese, dove i centri commerciali e le aziende hanno lasciato solo scheletri vuoti di capannoni consumati dalla crisi.
Marina insegue un padre distratto e distante, che lei ama alla follia e che vorrebbe riavere nella sua vita, e prova a tenersi stretto quello che le rimane dell’affetto di sua madre, ormai alcolizzata. Tutti sembrano averla abbandonata.
Tutti tranne Andrea.

Lui, figlio dell’ex sindaco berlusconiano di Biella, in perenne competizione con un fratello volato oltreoceano, ha deciso di lasciare gli studi prima della tesi per salire sui monti e mettersi a fare il margaro, mungere mucche, fare il formaggio, il lavoro di suo nonno.
Andrea vuole restare nella sua terra a costruirsi un faticoso avvenire lì dove non è rimasto nulla, se non il ricordo di un benessere rosicchiato fino all’osso. Marina vuole invece scappare. Non si accorge della sua valle che si spegne. Lei brucia così tanto dentro, troppo.

I due si attraggono, non riescono a fare a meno l’uno dell’altra. Eppure non riescono a stare insieme. Diversi, a loro modo solitari, determinati, passionali. Uguali e diversissimi. Innamorati e nemici.
Sono due pianeti, Marina e Andrea, risoluti ma indecisi, ingenui ma profondi, determinati ma fragili.
Lei è sfacciata, spregiudicata, ignorante e vitale, lui è geloso, burbero, colto e paziente.
Se è vero il luogo comune che fa attrarre gli opposti, la loro storia dovrebbe essere piena di scintille…
E invece, durante la lettura, la tensione scema.

Silvia, con Acciaio, la sua fortunata opera prima, ci aveva regalato un racconto feroce e crudo di un’amicizia che cresce mentre tutto intorno muore. Aveva descritto un universo che si sta spegnendo, lasciando intorno macerie e desolazione.
In Marina Bellezza ci parla di un mondo che è già sparito, andato, bruciato, consumato da generazioni avide e spregevoli che non hanno lasciato nulla ai figli. Ci parla di giovani che cercano alternative all’esodo e di una nuova miseria, che ti costringe a costruire proprio su quelle macerie.
Per quanto il secondo romanzo riviva in alcuni punti la durezza avvincente del primo, perde spesso di carattere.

Manca un po’ di coraggio, un po’ di mordente, che avrebbero reso la storia d’amore più avvincente e credibile.

La passione dei vent’anni si riduce ai colpi di testa e ai capricci di lei e alla caparbietà ottusa di lui. Sembra quasi che vivano ogni loro passione come una ripicca, come il desiderio di un indennizzo. Mentre i sogni, anche se nascono da una perdita, sono sempre pieni di molto altro, di visioni, di speranza, di magia, di adrenalina.
Forse, l’amore che più ci commuove nel romanzo, è quello dell’autrice per la sua terra, il biellese, che descrive come qualcosa di fragile, come un vaso di vetro andato in frantumi e poi incollato, che bisogna maneggiare con cura per non rischiare di perderlo ancora.
L’Avallone racconta un microcosmo che si ripopola di giovani senza avvenire, che possono sperare di sopravvivere solo tornando indietro. Giovani che ripopolano le valli per fare mestieri scomparsi.

Sareste disposti a rinunciare alla vostra terra per il futuro?
Io che sono apolide, con troppe patrie e poche radici, avrei detto di sì, a vent’anni come ora.
I protagonisti del libro, invece, hanno il coraggio di chi resta, perché amano più di ogni altra cosa il posto in cui sono nati.

Diceva Jules Renard: “Il mio paese è là dove passano le nuvole più belle.”

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