Sei gradi di separazione? Molti meno.

Era il 1967 quando Stanley Milgram elaborò la teoria del mondo piccolo. I cittadini nordamericani, un pacchetto da consegnare a uno sconosciuto, la conta del numero di persone coinvolte nel passaggio di quel pacchetto dal mittente al destinatario. Non centinaia, come ci si sarebbe aspettati, ma sei: sei gradi di separazione per collegare due persone sconosciute ai lati opposti dell’America.

È il 2013 ora ed esistono i social network. Linkedin, che si basa su una variante di questa teoria dei sei gradi di separazione, ci dice che potenzialmente siamo in contatto con milioni di persone. Il concetto di “amici di amici” di Facebook, i followers di Twitter, danno la misura delle interazioni che ci rendono potenzialmente collegati a milioni di persone sparse per il mondo.
Si tratta di persone per lo più sconosciute con cui di fatto interagiamo ogni giorno sul web. O che potremmo anche conoscere, se solo ci sforzassimo di superare la comodità dell’elemento “schermo” (che è appunto schermante).

Le distanze sono ridotte, il mondo sembra davvero più piccolo.
E in effetti è così: studi recentissimi, svolti dalla National Chiao Tung University di Taiwan a firma di Eman Yasser Daraghmi e Shyan-Ming Yuan riportano che siamo a tre gradi di separazione da qualsiasi persona del pianeta, da Barack Obama a un eschimese nell’igloo.

Ma cosa significa tutto questo?
E soprattutto cosa ce ne facciamo realmente?
Siamo davvero in grado di sfruttare questa rete di conoscenze indotte e “in conto terzi” per arrivare a conoscere altre persone? Non solo per lavoro, dove una comune competenza rende logica e giustificata una determinata interazione, ma di distanze culturali e chilometriche abissali e incolmabili, di relazioni tra persone al netto del ruolo lavorativo che spesso diventa il dito dietro cui nascondersi per giustificare un interesse.
I cosiddetti VIP ad esempio: mi è capitato di avere in rubrica molti numeri di telefono di persone famose ma avrei potuto usarli solo all’interno di un determinato contesto lavorativo che ne istituzionalizzasse l’utilizzo, che ne giustificasse il contatto. Al di fuori di quella cerchia lavorativa, lo stesso numero e la stessa chiamata a quella persona avrebbero perso il “contesto” e quindi il senso.

Siamo davvero capaci di contattare, in tre passaggi, qualunque persona del mondo? Sì, è vero, sulla carta possiamo farlo, ma poi? Per dire cosa? Le interazioni sui social ci rendono tutti così capaci e brillanti, ma che ci facciamo poi con tutto questo potenziale conoscitivo?
Il mondo sarà anche più piccolo, ma gli amici, quelli che sanno che citofono devono premere per salire a casa tua, alla fine sono sempre i soliti pochi. Il mondo sarà anche più accessibile, ma le relazioni forti non si costruiscono lanciando parole nel web.
È che personalmente ho sempre ritenuto che non si tratta tanto di avere il numero di telefono di una certa persona in rubrica, quanto di un buon pretesto, oltre che di un adeguato contesto – lavorativo e non – per chiamarla.

Il mondo grande diventa piccolo e accessibile, è il mondo dove siamo sempre splendidi e collegati, ma empiricamente inutile ai fini di una relazione degna di questo nome. Interazioni sì, relazioni non credo.

Il proprio piccolo mondo reale fatto di legami forti, di profumi, di caffè bevuti insieme e di livelli di consapevolezza più profondi è quello che ci conosce anche nei nostri difetti e nonostante questi ci viene ancora a cercare.

Sapersi giostrare tra i vari livelli di reale e virtuale richiede spesso un equilibrio da funamboli con la consapevolezza che se si cade saranno gli amici a raccoglierci. Io coltiverei quelli.

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