Datemi un’aspirina. Devo farmi passare l’influencer

C’erano una volta gli Opinion Leader. Oggi ci sono gli influencer. E non sono proprio sicuro che nel cambio ne abbiamo guadagnato granchè, in competenze e comunicazione in generale.

Gli “influencer” sono coloro che hanno migliaia di “seguaci” (i “followers”), ma il sospetto è che tali dimostrazioni di affetto non nascondino la mutuata convinzione che i loro beniamini stiano dicendo qualcosa di intelligente, quanto la necessità dei loro fans di sentirsi parte di una folla, riconoscersi in un pensiero comune, nascondersi anonimi in un gruppo di etichettati. Il che, rende tutti più sicuri da una parte e appaga quel senso da “sindrome dell’escluso dal talent show” – sottotitolo – “volevo cantare anch’io e non me lo fanno fare”, dall’altra.

Molto più facile che avere un pensiero “controcorrente” personale, unico, targato “sestessi”.

I fans degli influencer difficilmente la pensano contrariamente l’uno dall’altro e i commenti non sono mai di concetto, quanto piuttosto delle richieste di riconoscimento. Cosa di cui un opinion leader vero e proprio non ha bisogno. “Opinion” perchè conoscevano un argomento nel dettaglio. “Leader” perchè la gente li riconosceva tali e per la storia alle spalle che parlava per loro.
“Elemosinare influenza”, non è la stessa cosa.

Datemi un'aspirina. Devo farmi passare l'influencer

Una precisazione come quella di cui sopra, se la scrive mio zio riceve al massimo due like dai familiari e un paio di insulti dai vicini. Ma se a scriverla è un’influencer, c’è addirittura chi la condivide sul proprio profilo!

Il terrore di essere controcorrente condiziona al punto tale da retwittarsi l’un con l’altro in un loop informativo piatto, uguale, ripetitivo.

Guardate i commenti sulle timeline degli influencer e il contenuto dei loro post: da quando c’è il social media marketing, gli argomenti topici riguardano l’attenzione al personal branding e ad evitare l’auto-referenzialità. Errori in cui puntualmente incappano proprio coloro che altezzosamente, dai loro corsi di formazione all’interno delle Business School più qualificate, insegnano agli altri a non fare.

Non dimenticate che in quelle scuole, a quelle trasmissioni, su quei giornali, costoro sono arrivati grazie ai like, alle condivisioni, alla superficialità con cui vengono referenziati da persone che non li hanno mai visti all’opera. La continua richiesta di “like” sulle pagine aziendali che loro stanno costruendo, nascondono in verità la totale mancanza di contatti che essi hanno a livello professionale e stanno facendo di voi lo specchietto per le allodole, vendendovi ai loro presenti e futuri clienti.

Datemi un'aspirina. Devo farmi passare l'influencer

A questa situazione concorre anche la persistenza nelle aziende di una generazione di manager che ancora detiene capacità decisionale, ma che fa fatica a confrontarsi con i nuovi media e ancora di più fa fatica ad approfondire, ricercare e valutare chi davvero è innovatore e portatore di messaggi efficaci legati al social media marketing e all’immagine aziendale. E così, ecco che torna in voga il caro vecchio passaparola fra followers.
Proprio coloro che, esclusi dalle referenze professionali (perchè di fatto non hanno una storia professionale), tanto lo criticavano quando si trattava di venire esclusi da posti di lavoro nella vita reale.

Il passaparola almeno aveva una base scientifica, un “segnalatore responsabile” e permetteva alle aziende di avere una base di referenze su cui valutare le competenze del candidato. Sostituito da un pecoreccio rumore di fondo, da un esercito infinito di voci, strategiche per chi viene nominato, ma di nessun beneficio per chi lo opera, la domanda che sorge spontanea è: di chi sarà la responsabilità quando quell’azienda si vedrà recapitare in aula una ragazzotta bravissima a ottenere consensi in rete, ma assolutamente incapace a trasmettere contenuti originali e strategici per un’azienda?

Perchè, parliamoci chiaro. Le frasi ad effetto su Facebook non hanno uguale effetto quando bisogna indirizzare fatturati, margini e operazioni industriali.

Eserciti di blogger sono solo l’esempio più rumoroso di una categoria non-professionale che ha trovato un varco nel momento di grande esplosione dei social network a cui il marketing tradizionale non ha saputo aggiornarsi e al tempo stesso, di grande crisi del giornalismo. Le aziende meno preparate ad affrontare campagne di marketing strutturate ricorrono al Sottocosto arruolando blogger per ogni situazione. Food blogger, wine blogger (una sorta di specializzazione dei primi), travel blogger. Un varco piuttosto fragile, poichè ben presto le aziende si renderanno conto della scarsa sostenibilità nell’affidare a chi non influenza proprio nessuno, la comunicazione di brand e prodotti.

A loro favore, c’è da dire che i blogger non solo rimangono per tutto il tempo dell’evento, ma scrivono a fiumi, sono motivati e soprattutto animati dal sacro fuoco della visibilità, a differenza della indolenza dei giornalisti alla ricerca “della notizia”, poco interessati a seguire gli avvenimenti delle imprese locali, spesso capitati li per caso senza un minimo di preparazione sull’argomento.

Mariangela Vaglio (@galatea) già due anni fa dichiarava:“In base allo stesso principio, un “esperto di social network” non è chiunque abbia più di mille contatti nella sua pagina di Twitter, anche se magari lui si presenta come tale nella bio allegata al Social, o quello che per caso è stato citato un paio di volte sui giornali perché fra i suoi followers ha Manuela Arcuri.

Ha un senso invitare il blogger generalista di vasta risonanza se invece, per caso, a te interessa proprio la fuffa, o meglio, un giorno di pubblicità gratuita in rete. Allora invitare al seminario aziendale o al convegno una vagonata di blogger più o meno famosi, offrendo loro pernottamento e cena ha una sua logica: non ti interessa affatto quello che diranno, ma il fatto che, entusiasti per essere stati contattati come esperti, twitteranno in continuazione dall’evento, diffondendo l’hashtag del tuo seminario aziendale…”

E adesso mi appello al recupero dell’intelligenza collettiva. Come ogni click su facebook viene pagato 0,24 centesimi, fatevi pagare anche voi un tanto al click da questi influencer.
Non date più un solo like a pagine aziendali che non state scegliendo voi. Rispondete solo a post che invitino al confronto. Scommettete che in capo a 6 mesi sulla vostra timeline non compare più un solo avviso promozionale?

Impostazioni privacy