È tempo di imparare

“Che libro ha scritto Valeria Parrella. Una giovane donna di nemmeno quarant’anni, una ragazza napoletana coi ricci che trasforma il dolore in bellezza. Una scugnizza sciamana che parla la lingua dei segni e coi segni descrive a chi non sente, mostra a chi non vede. Scava, con le parole, fin dove la spiaggia torna acqua, trova sgrammaticature che scivolano fin dentro la scatola nera, quella che per prudenza per pudore per istinto non apriamo mai. E invece, ad aprirla, guarda la luce che c’è. Cuce un vestito nuovo da uno scampolo strappato, da qualcun altro buttato via, lo fa con precisione e d’urgenza. Con una certa fretta di dire in modo esatto”
Concita De Gregorio, L’isola di Arturo Repubblica (6/1/2014)

Valeria Parrella, classe 1974 e una laurea in lettere, ha vinto il Premio Campiello grazie al suo libro d’esordio (Mosca più balena), tra i suoi romanzi figura Lo spazio bianco, da cui è stato tratto un omonimo film diretto da Francesca Comencini. Tempo di imparare è la sua ultima fatica, pubblicata da Einaudi, una storia toccante, che tratta un tema delicatissimo senza incorrere in facili melodrammi, scritto con la tecnica sapiente di chi la lingua italiana la conosce bene e sa come usarla e giocarci.

Arturo è un bambino, e deve affrontare i problemi della sua età, come la scuola, le visite mediche, tutte cose delle quali deve occuparsi sua madre, che ogni giorno . Arturo e sua madre, però, affrontano ogni giorno sfide più complicate e sofferte rispetto a quelle dei compagni di scuola del bambino, perché Arturo è autistico a causa di un’asfissia alla nascita.

Parrella, in questo libro, non usa mai la parola “handicap” e non per perbenismo linguistico, ma per una semplice – ma colma di significati – distizione semantica:
In questo libro io uso la parola “disabilità” perché ha un precedente letterario imprescindibile in Giuseppe Pontiggia di “Nati due volte”, e la parola inglese handicap che è il gap il salto che la società, la politica, le strutture che circondano una persona disabile non riescono a colmare.
Afferma Parrella rispondendo alle domande del Corriere del Mezzogiorno.

Il libro accompagna la madre di Arturo, che ogni giorno affronta la disabilità del figlio e gli handicap della società, e che gli insegna, come ogni genitore, a vivere nel mondo, accorgendosi che è ella stessa ad imparare da lui, dall’ingenuità della sua infanzia e dall’unicità della sua malattia.

“Le armi a ben guardare sono le stesse della letteratura: nominare le cose, percorrerle, trasfigurarle, lasciarle andare”, così recita la recensione scelta da Einaudi per descrivere il libro, che rimanda, a ben guardare, alla poetica pascoliana del Fanciullino, il quale “È l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente (…) adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario (…) : impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare”.

Dare un nome alle cose è prerogativa dell’infanzia, così come della letteratura, che hanno lo stesso potere di insegnare e di arricchire, così come il bambino protagonista del libro, alunno e al tempo stesso insegnante della madre, il “tempo di imparare” è giunto per la madre di Arturo e per tutte le madri che hanno a che fare con una realtà simile alla loro, e per chi tale realtà non la conosce, ma che non può più fare finta di niente.

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