Olimpiadi blindate, luci e ombre di Sochi 2014

Manca meno di una settimana all’apertura delle Olimpiadi invernali di Sochi, ma la Russia è in allerta da mesi.
Nuove regole per i bagagli a mano in aereo, divieto di portare liquidi e cibo persino sui treni, niente pacchi chiusi per posta, migliaia di poliziotti e telecamere ad ogni angolo. Sochi è una città blindata: tutto deve funzionare alla perfezione.

D’altronde, i rischi sono reali: solo un mese fa, un duplice attentato terroristico ha provocato trentuno vittime a Volvograd e, proprio all’indomani di quelle stragi, un esponente del gruppo terroristico responsabile avrebbe lanciato un avvertimento direttamente al presidente Putin: “se terrai le Olimpiadi riceverai un regalo da noi… per te e per tutti i turisti che arriveranno“.

Dunque hanno ragione i Russi a temere per l’incolumità degli atleti e dei turisti, che accorreranno da tutto il mondo per assistere alla manifestazione invernale record di introiti. Ecco allora che tra raccolte dati, intercettazioni, fermi ed arresti preventivi, oltre al dispiegamento di mezzi di cui sopra, Putin non ha badato a spese: il totale è di due miliardi e mezzo di euro in misure di sicurezza.

Il presidente degli Stati Uniti Obama, la cui presenza comunque non è attesa, ha garantito che in ogni caso non crede vi siano rischi per le Olimpiadi di Sochi, soprattutto dopo il lavoro che stanno portando avanti le forze di sicurezza: “le autorità russe hanno compreso la posta in gioco. Hanno capito che ci sono potenziali minacce, e ci stiamo coordinando con loro“, ha riferito alla CNN.

Di certo, organizzare un evento così importante in una città così vicina a quella che è stata definita “la polveriera caucasica” presuppone una presa di coscienza, da parte delle autorità, dei rischi che ciò può comportare. Come afferma il portavoce italiano di Amnesty International Riccardo Noury, “le ferite del Caucaso sono ancora aperte. Grozny, la capitale cecena, può essere stata anche ricostruita e l’ordine pubblico può anche essere stato ripristinato in altre parti della regione, come in Daghestan e nell’Inguscezia. Ma il senso di oppressione e di mancata giustizia rimane, così come restano irrisolti numerosi casi di sparizione e di uccisione illegale“.

La minaccia più grave infatti proviene da un gruppo separatista ceceno di matrice terroristica – lo stesso responsabile degli attentati di Volgograd. Guidati da Doku Umarov questi nazionalisti, presenti anche nell’Ignuscezia e nel Daghestan, lottano da anni per vedersi riconosciute le richieste di autonomia. In più, la violenza cecena si mescola al fondamentalismo islamico, essendo la maggioranza della popolazione di religione musulmana.

Si tratta di un conflitto di cui non si sente parlare molto ma che, in realtà, è uno dei più sanguinosi in corso: solo nel 2012 ha provocato oltre settecento vittime. È dall’inizio degli anni novanta che la Cecenia lotta per rendersi indipendente; peccato che, oltre a diversi giacimenti petroliferi, essa comprenda sul suo suolo anche oleodotti e gasdotti troppo preziosi perché la Russia possa farne a meno.

In un triste revival dell’invasione in Afghanistan, la Russia inviò le prime truppe nel ’94. La pace venne firmata circa tre anni dopo e Aslan Maskhadov venne eletto come primo Presidente della Cecenia, ma presto le ostilità ripresero e, nel ’99, si diede inizio alla seconda guerra cecena, in cui Maskhadov venne ricercato ed ucciso dalle forze Russe. Da allora al governo ceceno si sono succeduti esponenti sempre più radicali, fino ad arrivare agli attentati di Volgograd e alle minacce per i giochi della settimana prossima.

Ecco cos’è che teme Putin. In realtà aveva provato a riacquistare un po’ di simpatie occidentali con la scarcerazione delle Pussy Riot e del prigioniero politico Khodorkovsky: “non avrebbero dovuto passare neanche un giorno in carcere – continua Riccardo Noury – e dunque il fatto che l’amnistia per le due Pussy Riot e la grazia per Khodorkosvky abbiano consentito il loro ritorno in libertà è positivo. Immagino che le ragioni di questo provvedimento non siano state meramente umanitarie. Se i tre prigionieri fossero stati ancora in carcere durante le Olimpiadi, sarebbero diventati delle icone popolari della protesta per il rispetto dei diritti umani“.
Eppure questa manovra, invece di chetare le acque, sembra comunque aver gettato nuova luce sui risvolti autoritari della politica di Putin.

Forse, tutti gli occhi puntati sulle Olimpiadi di Sochi finiranno per vedere più di quanto Putin non voglia mostrare.

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