Unione Rugby Capitolina, intervista esclusiva al presidente Vaccaro

Una storia societaria breve ma ricca di soddisfazioni, una progettualità costante ed incentrata sulla formazione di uomini ed atleti uniti da un forte legame verso la maglia e verso la palla ovale. Questa è l’Unione Rugby Capitolina: l’unico club in Italia ad autofinanziarsi ed ad attingere direttamente dal proprio bacino giovanile per militare in Eccellenza, il massimo campionato italiano di rugby.

Giorgio Vaccaro, presidente della squadra romana, racconta in esclusiva a Bloglive la realtà di uno dei club più interessanti dell’Italia ovale.

Tanti anni ai massimi livelli, poi l’incubo della serie B e il ritorno in Eccellenza. Quale è il segreto della rinascita dell’Unione Rugby Capitolina?

Non ci sono segreti. C’è semplicemente lavoro, un po’ di strategia e una buona pianificazione. Credo che il segreto sia tutto li. Un buon lavoro sul settore giovanile con grande concentrazione, come abbiamo sempre avuto, in merito alla formazione, ci ha ripagato in tempi molto più brevi rispetto a quanto pensassimo. Davamo per scontato l’ascesa dalla serie B, ma arrivare all’Eccellenza è stata sicuramente un’anticipazione rispetto a quanto pensassimo, diciamo almeno un paio d’anni di anticipo.

Il “ControProgetto” ed i “buoni a nulla ma capaci di tutto”. Ce la racconta un po’ di storia recente della società?

Il “ControProgetto” è qualcosa di scherzoso, ma non troppo, nato negli anni in cui la Capitolina aveva fatto la scelta del professionismo dividendo il club in due società: da una parte la S.p.A. che si occupava del lato professionistico, e dall’altra l’associazione sportiva che si occupava del settore giovanile. In quel periodo c’era un gruppo di ragazzi giovani del vivaio della Capitolina, i quali non entrarono nell’ambito del progetto professionistico per scelte tecniche, iniziandosi a sentire emarginati ed ad accusare un malessere dovuto a questa spaccatura tra professionismo e non professionismo. In maniera goliardica, simpatica e divertente manifestarono un malessere di fondo che andò a scemare con la decisione di uscire dal professionismo e ricreare un unica società. Non esiste più alcuna spaccatura tra giocatori “seniores” se non la divisione tra prima e seconda squadra, sempre per scelte tecniche, che però non incide sullo status di socio tesserato (e pagante) dell’Unione Rugby Capitolina.

Tra autofinanziamento e cura del settore giovanile. Quale è la missione educativa della Capitolina?

Una delle missioni fondamentali della Capitolina è quella di curare la formazione dei ragazzi. Abbiamo sempre dato un significato ampio alla parola “formazione”: formazione dal punto di vista sportivo, quindi formazione tecnica, e formazione di uomini. Tutti gli appassionati del nostro sport sanno quanto i valori fondanti nel rugby siano poi utili nella vita di uomini adulti, quindi, da questo punto di vista, abbiamo sempre voluto formare i nostri ragazzi sia come uomini che come atleti. Per fare questo, con la collaborazione di Daniele Pacini, abbiamo concentrato i nostri sforzi prima che sulla formazione dei ragazzi, sulla formazione dei formatori. Ci siamo sempre detti che se non avessimo avuto buoni allenatori non avremmo mai avuto buoni ragazzi. E questa è forse la differenza tra la Capitolina e moltissime altre società dove la formazione, anche dei più piccoli, è da sempre lasciata ad ex giocatori o amatori in maniera spontanea e non organizzata. La nostra organizzazione ci sta ripagando: i ragazzi delle nostre under 14, 16 e 18 combattono sempre per i massimi livelli dei campionati nazionali.
Per quanto riguarda l’autofinanziamento: dobbiamo organizzarci, gli sponsor sono sempre più difficili da trovare, anche se ultimamente abbiamo concluso degli accordi importanti che però non sono sufficienti a mantenere in vita il club. Le quote pagate dai ragazzi per giocare non coprono neanche il 60 per cento dei costi che sosteniamo: abbiamo trovato una soluzione nell’ Hosteria del Campo che è il nostro primo sponsor e nei contributi della Federazione che riconosce i nostri sforzi per il movimento.

Provandoci a rapportare con il calcio, il progetto URC potrebbe affermarsi in sport dai diversi valori?

La domanda è difficile. Non conosco di persona le realtà delle società che si occupano di calcio a livello giovanile. Mi arriva qualche racconto da “bar” o da “salotto” che mi fanno percepire un’ambiente stressato, dove fin da piccolissimi gli atleti vengono messi sotto pressione sia dai genitori che dalle società. Se ci fossero squadre guidate da persone dai diversi valori sicuramente il progetto potrebbe funzionare: il problema non sono i ragazzi, il problema sono i grandi. Più che un problema di “mondo” credo sia un problema di persone.

Tanti ragazzi che sono passati per la Capitolina sono arrivati in nazionale maggiore. Qualcuno è anche tornato. Come è il rapporto tra questi giocatori e la società?

Ottimo. Abbiamo l’esempio di Riccardo Bocchino che ha giocato un mondiale ed ha poi scelto di uscire dal professionismo ed è tornato a giocare con noi. Il rapporto è serenissimo, sono ragazzi che tornano a casa. Non potrebbe essere migliore. A volte vedo che chi per molti anni ha fatto dello sport la sua professione si abitua a ritmi ed atteggiamenti professionistici, facendo fatica ad integrarsi con chi non ha avuto questa possibilità. Ma ci si vive e ci si chiarisce serenamente. Personalmente non vedo l’ora che torni a giocare con noi Giulio Toniolatti, magari un giorno quando si stuferà di fare il professionista.

Magari anche Venditti…

E perchè no, Venditti, Pratichetti, tutti. Sono convinto che prima o poi torneranno a giocare con la loro prima maglia alla quale per altro so essere molto legati.

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