Nuovi scontri in Crimea dove, nei pressi di Sminferopoli, le forze russe hanno attaccato una base della difesa anti-aerea. I militari, appartenenti alla Marina o ai cosacchi, avrebbero assediato un centinaio di soldati fedeli a Kiev presenti all’interno della Base e si è arrivati alla resa solo dopo averli costretti a gettare le armi. L’attacco è stato confermato anche dalla tv Atr di Sebastopoli (dove ha sede la Flotta del Mar Nero); inoltre, secondo alcuni testimoni, i miliziani russi avrebbero aggredito anche un paio di giornalisti.
La presenza della Russia dunque si fa sempre più pressante in Crimea, tanto che è stato necessario anticipare al 16 marzo il referendum con cui i cittadini si pronunceranno sulla separazione dall’Ucraina, che ormai corrisponde solo in minima parte alla loro nazionalità: si voterà infatti per decidere se tornare o meno a far parte della Russia.
La risposta arriva da Dmitri Peskov, portavoce di Putin, secondo cui gli ultimi eventi in Ucraina e specialmente in Crimea hanno avuto una «genesi interna» che non hanno «nulla a che vedere con la Federazione Russa». Si sarebbe trattato piuttosto di «un trionfo dell’illegalità, del cinismo, del collasso del diritto internazionale e dei doppi standard», cui dunque il popolo di Crimea deve poter reagire con una decisione autonoma.
Nel frattempo, dall’altro lato della barricata, arrivano pressioni a Kiev affinché venga saldato il debito contratto con la Russia quanto alle forniture di gas per il mese di febbraio: Putin minaccia infatti di chiudere i rubinetti se non arriveranno subito gli 1,89 miliardi dovuti, il cui rientro era previsto entro ieri. Suona come una minaccia, ma una situazione del genere era già capitata nel 2009 – come ricordato dall’amministratore delegato della Gazprom, Alexiei Miller.
«C’è un modo per risolvere la situazione con mezzi diplomatici, in modo da venire incontro agli interessi della Russia, del popolo ucraino e della comunità internazionale» sono le parole di Obama. Dal Cremlino però la risposta è tutt’altro che incoraggiante: a Mosca gli appelli europei alle trattative «suscitano un sorriso», tanto è esaurita la fiducia dopo il destino del documento firmato da Yanukovich a Kiev il 21 febbraio.
[Foto: ilpost.it]