Morto Dino Molho, visse 13 mesi nascosto in una stanza segreta

Un altro testimone della Shoah ci ha lasciato, Dino Molho è morto all’età di 91 nella sua casa in provincia di Milano. Scampò ai nazisti, nascondendosi come Anna Frank.

Dino Molho
Dino Molho, sopravvissuto alla Shoa, durante un intervento (screenshot web)

Ci ha lasciati Dino Molho, sopravvissuto alla persecuzione dei nazisti, aveva 91 anni. L’uomo si è spento tra le mura di casa sua a Magenta, in provincia di Milano. La sua storia, per certi versi, può essere accostata a quella di Anna Frank. Entrambi si sono rifugiati in una stanza per mesi, ma Dino si era salvato grazie ai suoi operai e aveva negli anni raccontato la sua storia mantenendo intatta la memoria. Il padre di Molho era un imprenditore greco che si era trasferito in Italia. Qui aveva fatto fortuna ed era proprietario di una fabbrica. Sono stati gli operai della fabbrica a salvare la famiglia, nascondendola in una stanza coperta da casse.

Gli uomini erano solito portare approvvigionamenti, entrando a carponi e rischiando ogni volta di essere scoperti. Una volta usciti da quell’inferno, Dino Molho sposa Lydia Levi e dal matrimonio nascono tre bambini. Molho si impegna a portare avanti l’azienda del padre e nel 1998 riesce ad ottenere un riconoscimento per gli operai che li misero in salvo.

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Dino Molho, l’Anna Frank italiana che ce l’ha fatta

campo concentramento dino molho
Auschwitz, campo di concentramento (fonte pixabay)

Dino Molho è la nostra Anna Frak, la sua storia ha colpito molto di più di quella della Frank forse perché parlava la nostra lingua ed è accaduto nella nostra terra. All’epoca Dino aveva soltanto 15 anni e si ritrovò “imprigionato” in una stanza nella fabbrica del padre, nascosti da una parete di casse per l’imballaggio. Una sola cassa si apriva ed era l’ingresso da dove i Molho non uscivano mai, soltanto per prendere una boccata d’aria nel giardino interno della fabbrica.

Aveva creato un sistema di allarme: c’erano due lampadine all’esterno dell’edificio, si azionavano dalla portineria. Quando c’era pericolo si accendeva una lampadina, se il pericolo era molto grave se ne accendevano due. In questo modo la famiglia sapeva che doveva restare immobile per non farsi scoprire. Lydia Levi ha spesso ricordato quei momenti difficili, vivere in uno spazio minuscolo al buoi, ma loro sono stati fortunati. Sono riusciti a sopravvivere alla Shoa senza mai andare nei campi di concentramento.

 

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